Sono solo di pochissimi mesi fa le immagini dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, quell’”orribile mattanza” - come l’aveva allora definita il Gip nel provvedimento di custodia cautelare emesso nei confronti dei suoi autori - che ha scatenato l’indignazione generale, invocando la necessità d’una attenta riflessione oltre che - come da tempo si sollecita - d’un deciso intervento per sanare i guasti del nostro sistema penitenziario.
E, tuttavia, è ancora di disfunzioni e di malfunzionamenti carcerari che si torna a parlare, sebbene non per condannare - stavolta - azioni esplicite e violente compiute a danno dei detenuti, ma idee, pregiudizi ed omissioni che di fatto si traducono in altrettanto difetto, contribuendo a demolire tanto l’dea del ruolo rieducativo della pena che quella del rispetto della dignità umana che, quasi cinquant’anni fa, hanno costituito il cardine della riforma penitenziaria.
Fino al 1975, com’è noto, il nostro sistema carcerario ha mantenuto una natura punitiva: privazioni e sofferenza fisica erano gli strumenti adottati per favorire il pentimento e la rieducazione del reo. Con la riforma penitenziaria varata dalla Legge n. 354/75 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) il quadro è cambiato radicalmente: il trattamento penitenziario si è ispirato ai principi d’umanità e dignità della persona, in attuazione di quanto sancito nel 3 comma dell’art. 27della Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”); l’art.13 della predetta legge ha inoltre disposto che il trattamento penitenziario deve essere individualizzato e dunque rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto.
Eppure la realtà carceraria continua a scontrarsi – in maniera più o meno evidente – con gli enunciati normativi.
Due recenti episodi hanno difatti rimarcato ancora una volta contraddizioni ed inadeguatezze, offrendo il fianco ad ulteriori aspre critiche e condanne.
L’uno si riferisce alla recente vicenda della ventenne rom detenuta per furto nel reparto femminile del carcere di Rebibbia dove ha partorito la sua bambina, di notte, senza alcuna assistenza, né ostetrica né medica né infermieristica, aiutata soltanto dalla compagna di cella, a sua volta incinta di cinque mesi.
Sono molti gli interrogativi che si pongono di fronte ad un tale episodio di indifferenza/inefficienza che chiama in causa le responsabilità tanto della magistratura che dell’amministrazione penitenziaria: come mai la ragazza era lì nonostante il codice penale, in caso di condanne definitive, imponga il differimento della pena per donne incinte o madri di minori di un anno? Com’è stato possibile che non siano state predisposte le cure e l’assistenza necessarie in presenza di una condizione di tutta evidenza, d’una gravidanza d’imminente scadenza?
Qui il profilo della dignità del detenuto si combina in maniera decisiva con quello dell’umanità, un’altra delle mancanze di cui più di frequente si accusa il nostro sistema penitenziario e che diventa ancora più evidente quando, a farne le spese, rischiano di essere anche innocenti, come in questo caso la neonata.
Eppure – come riporta la stampa - il garante per i detenuti aveva scritto in tribunale chiedendo la scarcerazione della donna e proponendone il ricovero in una struttura protetta per la tutela delle detenute con figli minori. Ma quella lettera non ha mai avuto risposta, come del resto nessuno degli interrogativi di cui sopra.
L’altro episodio si rifà alla decisione del Tribunale di Sorveglianza di Bologna – risalente invece a qualche settimana fa – che ha negato gli arresti domiciliari per motivi di salute ad un detenuto, motivandola con quello che, in sintesi estrema, si potrebbe definire il suo “eccesso di cultura”.
L’uomo (un affiliato del clan di camorra dei “casalesi” e perciò condannato a 18 anni per associazione mafiosa nonché sequestro di persona) dal carcere di Bologna è riuscito a conseguire due lauree - in Giurisprudenza e Economia - con il massimo dei voti ed un master per giuristi d’impresa. Tanto è bastato al Tribunale per negargli la richiesta di domiciliari, avendo difatti ritenuto non solo che la sua salute fosse compatibile con il carcere ma anche che le lauree ed il master frattanto conseguiti potessero aver affinato le sue “indiscusse capacità” e dunque “gli strumenti giuridici a sua disposizione per reiterare condotte illecite in ambito finanziario ed economico”.
Come dire, insomma, che la sua cultura universitaria altro non avrebbe fatto che rafforzare la sua dimensione criminale!
Di fronte ad un tale paradosso, vengono spontanee ed immediate alcune considerazioni: una, la più semplice ed evidente, spinge a domandarsi come sia possibile che istruzione e formazione culturale che hanno sempre rappresentato il più efficace mezzo di “liberazione” ed emancipazione da scelte devianti possano essere invece intese e reinterpretate come elementi di pericolosità; l’altra è come si possa mai conciliare una tale interpretazione col monito che quotidianamente educatori (siano essi insegnanti o genitori) e rappresentanti istituzionali rivolgono ai giovani, indicando studio e cultura come strumenti di prevenzione del crimine e della devianza; infine, dove sia il rispetto dei tanto declamati principi di uguaglianza e pari opportunità se, di fatto, si “classifica” il merito, discriminando persino il valore dei traguardi di studio.
Si dimentica, forse, che l’istruzione è un diritto – come enuncia la nostra stessa Costituzione - e come tale va trattato, non potendosi perciò declinare in maniera negativa al punto da diventare argomento motivante d’una decisione altrettanto negativa. Ed è, inoltre, uno strumento educativo – anzi, lo è forse per eccellenza – e, come tale non può che concorrere a quell’omologa funzione che la legge fondamentale del nostro Stato riconosce alla pena.
Diversamente, pena e punizione non si distinguerebbero.