Stress, mobbing - con le sue sottospecie definite bossing1 e straining2 - bullying3, burn-out4 harassment5, workaholism6: fatta eccezione per le prime due - che sono parole d’uso più ricorrente e perciò più note – potrebbe non arrivarsi ad immaginare che ognuno di questi termini individua una diversa possibile causa o l’effetto del disagio lavorativo.
Ne ho trovato indicazioni e descrizioni navigando in rete, mossa dal bisogno di capire quali meccanismi mentali possano scattare – e, soprattutto, a seguito di quali condizioni - per indurre una giovane donna, un medico, a sparire improvvisamente, senza lasciare alcuna traccia di sé, né nell’ambiente di lavoro né nella sfera dei suoi amici, familiari e conoscenti.
La vicenda è quella di Sara Pedri - ginecologa trentunenne, forlivese d’origine e specializzatasi all’Università di Catanzaro - scomparsa più di quattro mesi fa, il 4 marzo, in Trentino.
Sara lavorava nel reparto di Ginecologia e Ostetricia dell’ospedale Santa Chiara di Trento; la sua auto è stata ritrovata nei pressi di Cles, vicino a un ponte sul torrente Noce. All’interno c’erano ancora la sua borsa e il cellulare.
La sua scomparsa era passata in sordina, persa tra le tante che si registrano ogni anno (solo nel 2020 sono state 13.537 le denunce di scomparsa presentate), finché non sono emerse inquietanti storie di abusi, mobbing, umiliazioni e comportamenti aggressivi perpetrati nei suoi confronti nell’ambiente di lavoro.
L’attenzione per Sara è allora rimbalzata in primo piano, schiudendosi su un contesto di sopraffazioni che sarebbero state la causa di un suo progressivo e grave malessere - sia fisico che psichico – e di un suo conseguente, probabile, estremo gesto.
C’è la certezza, non solo il sospetto, che nel reparto dove Sara lavorava vi fossero un clima ed una gestione poco rispettosi del personale medico e paramedico, associate ad una conseguente e persistente condizione di tensione dovuta alle umiliazioni ed ai maltrattamenti cui gli stessi sarebbero stati vittime.
Sara, in particolare, sarebbe stata spesso rimproverata e mortificata persino davanti ai pazienti, accumulando uno stato di stress tale da causarle repentino e visibile calo di peso ed una condizione ansiosa - di terrore, anzi - così marcata da farle perdere ogni sicurezza, anche quella – imprescindibile per il suo compito - di poter tenere un bisturi in mano.
Lo aveva scritto lei stessa in un appunto poi trovato nel suo appartamento dai carabinieri e lo ha confermato anche la sorella, cui Sara aveva confidato il suo estremo disagio.
Prima della sua scomparsa, peraltro, già altre sei professioniste del suo stesso reparto si erano rivolte a dei legali denunciando la situazione vessatoria in cui erano costrette a lavorare, ma solo dopo le denunce pubbliche dei familiari di Sara, seguite alla sua scomparsa, l’azienda sanitaria competente ha disposto l’indagine interna all’ospedale, allontanandone nell’immediato primario e viceprimario.
"L’esperienza a Trento doveva essere formativa – aveva scritto Sara – ma ha generato in me un profondo stato d’ansia, a causa del quale sono completamente bloccata e non posso proseguire. …Ricordo con quanto entusiasmo ero partita…Non ho mai detto no, nonostante i molteplici imprevisti... È una situazione più grande di me. Con la fretta e la frenesia non si impara, i risultati ottenuti sono solo terrore …. So che mi comprometto, ma ho bisogno di aiuto".
Ma quel grido d’aiuto – pure così forte e chiaro – non è mai arrivato.
Il 3 marzo Sara ha presentato le sue dimissioni; il giorno dopo è scomparsa.
Proviamo ad immaginarlo il suo stato d’animo, il terrore che le ha impedito di tradurre in azione quel bisogno d’aiuto che, alla fine, aveva compreso esserle necessario; ha avuto più paura d’essere svilita come professionista, di veder vanificati i suoi studi e la sua carriera se avesse osato denunciare i suoi tiranni che non di annientarsi lei stessa; ha ceduto alla pressione psicologica di chi aveva messo alla berlina le sue capacità e le sue competenze anziché opporsi; ha scelto una fuga senza ritorno anziché quella in un altrove dove poter dimostrare il suo valore, difendere la sua dignità, ricominciare.
Sara, che la vita l’aiutava a far nascere, la sua non è stata capace di salvarla.
È stata invece vittima dell’arroganza, della prepotenza, del disprezzo del valore altrui in una società dove residuano ancora silenti e sotterranee forme di moderna schiavitù, di quelle che non caricano le spalle di blocchi di travertino né le solcano con linee impresse da staffilate, e, tuttavia, comportano la soggezione ad un dominus che fuori dalla sua minuscola corte, di fatto, poi, vale poco o niente.
Eppure come lei ce ne sono tante, fragili ed impotenti vittime, afone ed invisibili.
Un esercito di “scomparsi”, che tali sono prima ancora che un folle gesto dettato dalla disperazione chiuda il sipario sulla loro esistenza; vite, sogni, speranze che non saranno e che avrebbero invece potuto germogliare se solo – come sempre più spesso accade – non fosse mancato il coraggio di denunciare.
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1Termine con cui si individuano gli abusi e le vessazioni perpetrate continuamente ai danni di un dipendente dal suo diretto superiore gerarchico;
2consiste nel compimento di azioni ostili o discriminatorie sporadiche – quali la privazione immotivata di strumenti di lavoro, il trasferimento in una sede disagiata, ecc – prive del requisito della continuità ma i cui effetti sono continui nel tempo;
3bullismo;
4sindrome (dunque patologia, come tale riconosciuta a livello medico secondo le indicazioni dell’International Classification of Disease (ICD), il testo di riferimento globale per tutte le patologie e le condizioni di salute elaborato dall’OMS) derivante da stress lavorativo che determina logorio psicofisico ed emotivo, demotivazione, delusione e disinteresse;
5molestie;
6dipendenza da lavoro.