Un tempo sarebbe bastata una semplice candidatura, l’invio di un curriculum vitae ben compilato, una lettera di referenze ed un successivo colloquio, per consentire a chi cercasse impiego di ambire ad ottenere un’assunzione.
Di questi tempi, invece, tutto questo risulta talvolta insufficiente, giacché l’accesso al mondo del lavoro viene spesso subordinato al possesso di particolari requisiti che parrebbero avere poco a che fare con la preparazione o l’esperienza.
Confesso di aver provato una sensazione di forte disagio e disorientamento davanti alla scoperta (per me lo è stato davvero, per “ritardo generazionale” evidentemente) di una serie di espressioni fastidiosamente e prepotentemente anglofone che tuttavia riscrivono le modalità di ricerca e reclutamento di lavoratori, perlopiù nell’ambito delle aziende di medie/grandi dimensioni: Culture Book, Cultural Fit, Team HR, Recruiting Team, talent retention e altre ancora.
Andando per ordine: il processo di Recruiting (cui è preposto un apposito Team) è la fase di selezione dei candidati; si parla anche di Team HR (la sigla sta per human resources) per indicare l’ufficio delle risorse umane, deputato alla gestione strategica del capitale umano d’azienda.
Fin qui nulla di nuovo sotto un profilo sostanziale: si tratta di funzioni da sempre esistenti ed evolutesi in ragione del variare delle caratteristiche delle aziende e delle loro finalità. Di diverso hanno soltanto la denominazione, e così sia.
Se però la selezione dei candidati deve rispondere a particolari esigenze, entra in gioco un elemento nuovo, che presuppone un diverso criterio di valutazione.
Si parla di “Cultural fit” per indicare la selezione di dipendenti e talenti sulla base della condivisione, da parte loro, dei valori, della visione e delle pratiche fondamentali dell’azienda presso cui intendono farsi assumere. Ciò al fine di determinare quale tipo di impatto culturale potrebbero avere sull’organizzazione.
Quel che fa impressione è che, se dal punto di vista dell’azienda che assume, la strategia del Cultural fit è finalizzata a trattenere i talenti migliori (“talent retention”), puntando proprio sul “feeling” corrente tra essi e l’azienda, dal punto di vista dei dipendenti pare altrettanto indispensabile l’esistenza di una tale relazione. Secondo alcune statistiche, infatti, il 35% dei talenti rifiuta un posto di lavoro perché non si rispecchia nei valori dell’impresa, a prescindere dalle qualifiche e da quanto la posizione sia entusiasmante (studio condotto da JobVite).
Il Cultural fit, insomma – in fase di assunzione - serve a garantire l’armonia tra il candidato e l’azienda, e funziona in entrambi i sensi, Pare che soprattutto i Millennials e la Generazione Z sono molto attenti ai valori e alla mission dell’azienda per cui intenderebbero lavorare o lavorano.
L’efficacia di una buona Cultural fit si traduce in una maggiore produttività dell’organizzazione, in una maggior collaborazione nei processi di lavoro e in una comunicazione migliore e aperta tra i componenti dei vari team di lavoro.
Strumento molto utile nell’ambito del Cultural fit è poi il Culture Book, un documento che riassume in maniera esaustiva la cultura aziendale a chi non ne fa parte e che serve, evidentemente, a fornire ai potenziali candidati tutte le informazioni più importanti sulla cultura aziendale, compresi i vantaggi per i dipendenti e le opportunità di sviluppo personale. Conseguentemente, esso consente di effettuare una sorta di selezione naturale a monte, giacché soltanto coloro che ritengono di avere caratteristiche e visioni in linea con i tratti richiesti dall’azienda presenteranno le loro candidature.
C’è tuttavia un altro capitolo che assume rilievo in una fase successiva, quando il rapporto di lavoro sia già stato instaurato.
Se, come accennato, dal punto di vista dell’azienda è importante trattenere i talenti, per i dipendenti sussiste una necessità uguale e contraria che è quella di affermare il proprio valore per far fronte alla competizione ed al timore di essere scavalcati. Il che innesca malsane dinamiche che hanno affiancato al mobbing verticale (dei vertici verso i sottoposti) anche un mobbing orizzontale, cioè tra colleghi pari grado.
Ciò comporta come conseguenza un crescente attaccamento al lavoro, vissuto dapprima come ansia da controllo e presidio a difesa del proprio ruolo, poi come vera e propria dipendenza, tale da identificarsi in una vera e propria sindrome, peraltro nota e definita sin dagli anni ’70. Lo psicologo statunitense Wayne Oates l’ha chiamata sindrome di Workaholic ed è tipica di chi dedica molto tempo ed energie a lavorare, trascurando famiglia e tempo libero.
Negli ultimi anni l’incidenza del disturbo è aumentata sensibilmente, sia per le cause suesposte sia a causa dell’innovazione tecnologica, che ha di molto ridotto il confine tra vita privata e lavorativa.
Tuttavia, la pandemia ha comportato un’inversione di tendenza – complice probabilmente anche la maggiore flessibilità consentita dall’accresciuto ricorso allo smart working – e, dunque, il recupero della necessità di bilanciare vita privata e lavorativa. Spesso, anzi, tale necessità influisce significativamente sulla decisione di accettare o lasciare un posto di lavoro.
E da qui riparte allora un circolo vizioso: la necessità per le aziende di ricercare dipendenti con caratteristiche rispondenti alla propria Cultural fit, per non dover correre il rischio di fronteggiare un numero sempre più alto di lavoratori che abbandonano il posto di occupazione a causa di stress eccessivo, orari troppo lunghi e scarsa considerazione per gli impegni familiari e personali.
Insomma, di fronte a tante formule e tante strategie, il beneficio del dubbio – spesso negato di fronte all’affermazione che trovare lavoro in Italia è difficile – ha invece qualche ragione d’essere.