Presto, molto presto, non saranno più i “recruiter” delle risorse umane ad occuparsi dei colloqui di lavoro. L’impegno di valutare un candidato, fra curriculum, skill, capacità di lavorare in squadra, dedizione e puntualità, sta passando di mano finendo in quelle dell’AI, l’intelligenza artificiale, la disciplina scientifica che dopo il Covid promette di cambiare ancora una volta l’esistenza al pianeta Terra.
Anzi, ad essere sinceri fino in fondo, “La quasi totalità delle 500 più grandi imprese statunitensi si affida già a questo tipo di strumenti per scegliere i futuri dipendenti e anche in Italia sono già oggi utilizzati da numerosi grandi datori di lavoro nel nostro Paese, e ci si attende una maggiore diffusione nel prossimo futuro - parole di Filippo Bordoni, ricercatore dell’Università Bicocca di Milano intervistato dal “Corriere della Sera” e autore di uno studio dedicato a quanto nell’opportunità o meno di trovare un posto di lavoro dipenda dagli algoritmi - dalla ricerca dei candidati alla lettura dei curriculum, dall’esame delle attitudini e delle competenze del candidato ai colloqui, dalla valutazione complessiva su quali candidati siano i più adatti al controllo delle referenze che hanno prodotto”.
In pratica, migliaia di CV compilati con cura soppesando ogni parola e destinati a non essere letti da una persona, ma da un sistema di machine learning che analizza e decide chi scartare e chi invece può andare avanti. Al momento si parla di circa il 60% delle grandi compagnie americane, con la previsione di arrivare all’82% entro il 2026, un trend confermato anche dai dati del network “Globe Newswire”, che stima in 4 miliardi di dollari il business dell’IA nella gestione del personale.
“L’esclusione avviene sulla base di un algoritmo di cui il candidato non conosce il funzionamento, o nel caso più estremo ignora del tutto l’esistenza, che è per natura “opaco”, nel quale si possono riproporre i bias di chi lo ha programmato o quelli contenuti nei dati con cui è stato addestrato, che richiede un trattamento talvolta molto pervasivo dei dati personali del candidato stesso. Se, come sembra ragionevole prevedere, tali strumenti digitali otterranno una diffusione sempre crescente, e se quindi l’automazione della selezione del personale – almeno di alcune fasi di essa – diventerà la norma in Europa e in Italia, l’accesso al lavoro da parte dei cittadini sarà, in concreto, sempre più condizionato dai fattori qui considerati e da altri di ancora difficile previsione”.
Una faccenda dai tratti inquietanti a cui Kevin Roose, un giornalista del “New York Times” aveva dedicato una lunga inchiesta diventata virale. Prendendo sé stesso come cavia, Roose era riuscito ad arrivare alla conclusione che per qualche strano motivo risultava antipatico ai chatbot, che regolarmente lo scartavano da qualsiasi ricerca del personale.
Uno dei sistemi più utilizzato nei processi di selezione è stato sviluppato dall’americana “HireVue”: attraverso una webcam, il software sottopone a diverse domande il candidato, che ha tre minuti di tempo per rispondere ad ognuna prima di sentirsi ripetere la frase standard di qualsiasi colloquio: “Le faremo sapere”. Una manciata di tempo in cui il sistema analizza non soltanto curriculum e quant’altro, ma studia 25mila dati che includono le espressioni facciali, il modo di esprimersi, il tono di voce, l’emotività e la postura del candidato.
Ma c’è già chi da tempo ricorda che affidare ad una macchina un delicato passaggio come la ricerca del personale ha come rovescio della medaglia una questione etica tutt’ora irrisolta. Oltre a togliere umanità all’intero processo, è sufficiente un software non aggiornato perché l’algoritmo escluda in modo arbitrario possibili candidati all’assunzione.
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