26 giugno 2021
26 giugno 2021

Se il marito fa paura

Autore: Ester Annetta
Con la sentenza n. 19611 del 18 maggio 2021, la III Sezione Penale della Cassazione, confermando la condanna della Corte d'Appello di Lecce pronunciata nei confronti dell’imputato ritenuto responsabile dei reati di maltrattamenti familiari, violenza sessuale e atti persecutori, ha sostenuto che integra il reato di violenza sessuale la condotta del marito che costringa la moglie a intrattenere rapporti sessuali nella consapevolezza del suo dissenso.

Nello specifico, ai fini della configurazione del reato è sufficiente che sussista lo stato di soggezione e d'intimidazione che la condotta del soggetto agente è in grado di provocare nella vittima e, dunque, la paura di quest’ultima di provocarne una reazione violenta in caso di rifiuto.

Questa la vicenda:
la Corte d’Appello di Lecce con sentenza del luglio 2020 aveva confermato la sentenza di primo grado pronunciata dal Tribunale di Lecce che, riconoscendo la responsabilità penale dell'imputato per i reati di maltrattamenti contro i familiari, violenza sessuale e atti persecutori (di cui agli artt. 572, 609-bis e 612 bis c.p.), l’aveva condannato alla pena di 8 anni e 5 mesi di reclusione nonché al risarcimento dei danni in favore delle parti civili. Tuttavia aveva ridotto la pena della reclusione a sette anni e sei mesi, confermando tutto il resto.

Avverso la suddetta pronuncia l’imputato aveva pertanto proposto ricorso in Cassazione, lamentando vizio di motivazione e travisamento delle prove. Più precisamente aveva contestato:
  • la valutazione di attendibilità delle persone offese espressa dalla Corte di Appello;
  • la circostanza che la documentazione sanitaria prodotta a riscontro esterno dell’accusa riguardava un solo episodio e non l'intera vicenda contestata;
  • la mancata argomentazione espressa sull'attendibilità dei figli minori escussi come testi;
  • il travisamento delle dichiarazioni della moglie in relazione al reato di violenza sessuale e la natura congetturale e non aderente ai fatti di causa espressa dalla Corte d’Appello.

La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso osservando:
  • in relazione all’asserito vizio di motivazione della sentenza d’appello, che – per pacifica giurisprudenza della stessa suprema Corte – qualora tra la sentenza appellata e quella di appello non vi sia difformità sui punti denunciati, esse si integrano vicendevolmente, “formando un tutto organico ed inscindibile, una sola entità logico- giuridica, alla quale occorre fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, integrando e completando con quella adottata dal primo giudice le eventuali carenze di quella di appello”. Ne consegue che “il giudice di appello, in caso di pronuncia conforme a quella appellata, può limitarsi a rinviare per relationem a quest’ultima sia nella ricostruzione del fatto sia nelle parti non oggetto di specifiche censure, dovendo soltanto rispondere in modo congruo alle singole doglianze prospettate dall’appellante”.

In ordine all’attendibilità della persona offesa, la Cassazione ha poi rilevato che le dichiarazioni rese da quest’ultima possono, da sole, porsi alla base della decisione della penale responsabilità dell'imputato, previa verifica ovviamente della credibilità del dichiarante e del suo racconto e che in ogni caso esso si configura come un giudizio di fatto, sottratto in quanto tale al sindacato di legittimità. Ha tuttavia ulteriormente rilevato che La Corte d'appello ha comunque motivato adeguatamente e in modo logico le sue valutazioni sull'attendibilità delle persone offese, essendo stato il loro racconto confermato dalla documentazione sanitaria prodotta contenente situazioni patologiche del tutto compatibili con i fatti descritti.

In relazione alla condotta di violenza sessuale contestata all'imputato, la Suprema Corte ha rilevato che la Corte d’Appello aveva precisato che "la persona offesa era stata chiara nel riferire che i rapporti sessuali non consenzienti avevano avuto inizio circa quattro/sei anni prima della cessazione della convivenza", e inoltre che “la circostanza che la donna, negli ultimi tempi, aveva deciso di dormire nella camera dei figli non aveva impedito il perpetrarsi delle violenze sessuali, in quanto la donna aveva chiaramente riferito che l'imputato era solito bussare alla porta per costringerla a consumare dei rapporti sessuali e che ella, soggiogata dal timore della reazione violenta che sarebbe seguita se si fosse rifiutata, lasciava i figli addormentati e cedeva alle pressanti richieste del marito."

Dunque, secondo i Giudici di merito la violenza risultava integrata dal dissenso della persona offesa.
E, in proposito, la Cassazione ha rilevato la corrispondenza di tale assunto con i principi da essa stessa espressi in materia.

Secondo gli Ermellini, infatti, “in tema di violenza sessuale, l’elemento oggettivo consiste sia nella violenza fisica in senso stretto, sia nella intimidazione psicologica che sia in grado di provocare la coazione della vittima a subire gli atti sessuali, sia anche nel compimento di atti di libidine subdoli e repentini, compiuti senza accertarsi del consenso della persona destinataria, o comunque prevenendone la manifestazione di dissenso.”

La stessa Corte ha inoltre già più volte affermato che “in tema di reati sessuali, l’idoneità della violenza o della minaccia a coartare la volontà della vittima va esaminata non secondo criteri astratti e aprioristici, ma valorizzando in concreto ogni circostanza oggettiva e soggettiva, sicché essa può sussistere anche in relazione ad una intimidazione psicologica attuata in situazioni particolari tali da influire negativamente sul processo mentale di libera determinazione della vittima, senza necessità di protrazione nel corso della successiva fase esecutiva.

A tal riguardo la Corte ha ricordato di aver pure già ribadito in più occasioni che "ai fini della configurabilità del delitto di violenza sessuale, non si richiede che la violenza sia tale da annullare la volontà del soggetto passivo, ma è sufficiente che la volontà risulti coartata. Neppure è necessario che l'uso della violenza o della minaccia sia contestuale al rapporto sessuale per tutto il tempo, dall'inizio fino al congiungimento: è sufficiente, invece, che il rapporto sessuale non voluto dalla parte offesa sia consumato anche solo approfittando dello stato di prostrazione, angoscia o diminuita resistenza in cui la vittima è ridotta."

Il dissenso della vittima può perciò essere desunto da una molteplicità di fattori, anche a prescindere dalla esistenza di riscontri fisici sul corpo della vittima, essendo sufficiente la costrizione ad un consenso viziato.
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