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La sposa bambina

Autore: Ester Annetta
Per dieci lunghi anni non aveva potuto vedere i suoi figli, aggiungendo questa ulteriore pena a quella, già sconfinata, di restare reclusa in carcere, sottoposta a maltrattamenti e abusi non minori di quelli da cui aveva tentato di scappare.

Aveva solo 15 anni Samira, quando era stata data in sposa ad un uomo molto più grande di lei. Una pratica ricorrente tra le classi sociali più povere, nel suo Paese, perché è il modo per racimolare qualche soldo e sperare, al tempo stesso, di sottrarre le donne ad una sicura vita di privazioni.

Ma spesso, invece, si finisce per far peggio: l’uomo cui vengono date in sposa ancora bambine si rivela ben presto un violento sopraffattore, un incubo ricorrente che le avvilisce, che le condanna ad una quotidianità fatta di maltrattamenti, botte, torture e abusi d’ogni sorta.

Un destino che era toccato anche a Samira.

Ma secondo le leggi iraniane, le donne non possono chiedere il divorzio, neanche se sono vittime di violenza domestica; non possono chiedere aiuto alla polizia, perché questa non può entrare in casa, e se tentano di scappare, vengono riportate dal marito, cui sono indissolubilmente legate per legge.

Perciò, dopo quattro anni di angherie e violenze d’ogni genere, Samira non ce l’aveva più fatta e aveva deciso di salvarsi da sola, uccidendo il suo aguzzino.

Le autorità l’avevano dunque arrestata e, dopo il solito processo-farsa che nemmeno aveva preso in considerazione i maltrattamenti domestici come attenuante, l’avevano condannata a morte per omicidio volontario. Contro di lei era stata applicata la “Qisas”, un principio che discende dall’interpretazione della legge coranica da parte del clero sciita e che consiste in una sorta di “restituzione per equivalente”, che assomiglia incredibilmente dall’antenata Legge del taglione babilonese.

Era stata dunque condotta in carcere, nel braccio della morte, che era stata la sua seconda condanna. Lì infatti erano proseguiti i suoi supplizi, fisici e psicologici, tanto che ormai Samira aveva perso l’uso della parola e non riusciva più a camminare.

Solo i familiari del marito avrebbero potuto salvarla dalla sua triste sorte, tramutando la pena di morte in un risarcimento economico – la “diya”, il ‘prezzo di sangue’ - che, tuttavia, non le avrebbe risparmiato l’ulteriore trauma di subire tutta la sequenza di riti e azioni che portano all’esecuzione capitale per impiccagione, giacché solo all’ultimo momento il “perdono” ricevuto le sarebbe stato rivelato.

Ma non è accaduto.

All’alba dello scorso 20 dicembre – dopo un iniziale rinvio, studiato probabilmente ad hoc dalle autorità iraniane, per ridurre l’attenzione sul caso sollevata dalle organizzazioni a difesa dei diritti umani – Samira è stata giustiziata. Soltanto qualche giorno prima aveva avuto esaudito il suo ultimo desiderio: rivedere finalmente i suoi figli, guardarli un’ultima volta negli occhi e portare con sé quell’immagine per sempre.

L’hanno condotta al patibolo, in sedia a rotelle perché ormai le gambe non la reggevano più; l’hanno sistemata su uno sgabello e le è stato infilato un cappio attorno al collo. Poi – ulteriore rito sadico del regime degli ayatollah - è stato chiesto ad uno dei familiari del marito di dare un calcio allo sgabello.

Buio.

Così ora il nome di Samira Sabzian è andato ad aggiungersi a quello di Mahsa Amini e alle altre donne che, dopo di loro, continueranno ad essere castigate per aver osato ribellarsi, pretendendo di infrangere regole che invece avrebbero dovuto soltanto accettare e subire.

Per quanto tempo ancora?
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