Pare sia stato il capitano inglese James Cook, alla fine del 1700, nel corso di una delle sue esplorazioni che per primo lo portarono alle Hawaii, ad annotare in un diario di viaggio il termine “tatow” (poi divenuto “tatoo”) per indicare i disegni che la popolazione indigena praticava sul proprio corpo chiamandoli “tau-tau”, suono onomatopeico che evocava quello del bastoncino che veniva battuto sulla pelle per tracciarne le linee.
In verità pare trattarsi di una pratica ancora più antica, presente già tra i romani e tra i primi cristiani, ma sembrerebbero esserci tracce anche più datate.
In Europa ed in Italia il tatuaggio è stato a lungo considerato un elemento infimo e dispregiativo, lo stigma del delinquente e del galeotto, sulla scorta delle teorie di Lombroso che, nel suo “L’uomo delinquente”, lo descriveva come “uno dei caratteri più singolari dell’uomo primitivo”, considerato alla stregua di “un ornamento, un vestiario, un distintivo nobiliare, onorifico e quasi gerarchico; […] un primo richiamo sessuale, perché segnala la pubertà nel maschio; […] persino una specie di archivio ambulante, nel quale l’individuo nota i fasti più notevoli della propria vita”, evidenziando altresì che, tra i contemporanei, il suo uso era rimasto appannaggio solo di contadini, operai, pastori, marinai, soldati, prostitute e – naturalmente – delinquenti.
Negli ultimi decenni la tendenza si è tuttavia invertita, tanto da trasformare la pratica dei tatuaggi in un autentico fenomeno di massa attorno al quale è fiorita una vera e propria letteratura - una “psicologia del tatuaggio”, anzi, - attraverso cui li si interpreta, cogliendovi messaggi nascosti della personalità rivelati da dimensioni, colori e, persino, dal lato o dalla parte del corpo scelta per imprimerli.
Perciò, accanto ad un significato “consapevole”, deciso da chi assegna al tatuaggio una precisa valenza (estetica; di ricerca e comunicazione della propria identità; di appartenenza a un gruppo; di celebrazione di un rito di passaggio, com’è nel caso degli adolescenti quando diventano maggiorenni), si colloca quello “inconscio”: tatuarsi la parte destra del corpo o il petto denota una personalità forte e decisa, mentre la scelta della parte sinistra o delle gambe è indice di un carattere debole, introverso e tendente al pessimismo. E, ancora: un tatuaggio in bella vista manifesta la volontà di renderlo pubblico, offrendolo agli apprezzamenti altrui, mentre quello nascosto rivela perlopiù timidezza.
La valenza distintiva di un tatuaggio può, però, talvolta essere pregiudizievole, quando, con riguardo alle sue dimensioni e visibilità (intesa, quest’ultima, proprio nell’accezione sensoriale del termine), contrasti con le regole o i regolamenti imposti in determinati ambiti.
Ed è proprio qui che vuole giungere questa lunga introduzione, poiché la questione da ultimo accennata dimostra come, al di là delle motivazioni e dei significati – esclusivamente soggettivi – che determinano la scelta di tatuarsi, essa abbia risvolti imprevisti, che possono perfino assumere rilevanza giudiziaria.
Sembra un paradosso, eppure è così, come dimostra la recente pronuncia del Consiglio di Stato (n. 2615 dell’8 aprile 2022) che, confermando la pronuncia di primo grado del TAR Lazio, ha ritenuto legittima l'esclusione dal concorso per l’Arma dei Carabinieri di un candidato che sulla coscia aveva un vistoso tatuaggio che il pantaloncino dell’uniforme ginnica non riusciva a coprire.
Il candidato aveva impugnato la decisione della Commissione esaminatrice (deputata agli accertamenti psicofisici dei concorrenti) che non lo aveva ritenuto idoneo a causa di un “tatuaggio presente sulla coscia destra 10 cm a monte del margine superiore della rotula, che copre l'intera circonferenza dell'arto per una larghezza di 57 cm e un'altezza di 16 cm.” Poiché, come precisato nel bando di concorso, l’idoneità del candidato era esclusa se avesse presentato tatuaggi visibili con ogni tipo di uniforme, compresa quella ginnica (pantaloncini e maglietta), la Commissione aveva fatto indossare un pantaloncino al candidato, evidenziando che, se il tatuaggio non era risultato visibile quando restava in posizione eretta, viceversa era apparso molto visibile quando gli era stato chiesto di sedersi o di piegarsi sulle ginocchia.
A motivo del proprio ricorso, il candidato aveva sostenuto, in primo luogo, che il pantaloncino indossato in occasione della prova non fosse della taglia giusta e, dunque, troppo corto, tanto da favorire la non marginale visibilità di un segmento del tatuaggio che altrimenti sarebbe rimasto nascosto ove, invece, fosse stato di una taglia giusta; in secondo luogo, “che il giudizio della Commissione sarebbe stato scorretto e consistito in una ‘valutazione' (e non piuttosto in un giudizio strettamente ‘tecnico') perché la prova effettuata non si sarebbe limitata, una volta indossato il pantalone corto d'ordinanza, alla visione della gamba in posizione del corpo statica ed eretta, ma durante flessioni sulle gambe ovvero in posizione seduta”, modalità, quest’ultima, non contemplata nel bando.
Il Consiglio di Stato, sul primo punto ha però osservato che il candidato, pur avendo eccepito l'inadeguatezza del pantaloncino fatto indossare, giacché di taglia inferiore a quella giusta, non aveva fornito alcuna prova in ordine a quale dovesse essere la taglia ritenuta giusta; sul secondo punto, ha rilevato che in nessuna delle norme tecniche e di riferimento dettate per il giudizio dei concorrenti si disponeva che le prove dovessero obbligatoriamente svolgersi tenendo l'esaminato in posizione del corpo statica ed eretta. Pertanto, a cospetto di oggettivi margini di discrezionalità in ordine alle modalità della prova, ha ritenuto corrette le scelte effettuate dalla Commissione, tanto più considerando che l'abbigliamento segue i movimenti del corpo e che, soprattutto quando si indossa un abbigliamento corto per fare esercizio fisico, è facile che certe parti del corpo si scoprano ancora di più.
Leggendo la vicenda e le sole argomentazioni che il Consiglio di Stato ha dovuto smontare, viene un po’ da sorridere nell’immaginare lo svolgersi della scena d’esame e ancor più nel pensare in quali argomenti – all’apparenza insignificanti – si imbatte a volte la macchina della giustizia, alla cui notoria mancanza di rapidità ed efficienza di certo non giova l’attenzione anche a vicende di contenuto “inferiore”. Tuttavia, se si considerano ulteriori aspetti – come messi a fuoco dal TAR in primo grado – le ragioni meno apparenti dell’intervento sulla vicenda esposta possono meglio comprendersi: “I Carabinieri sono potenzialmente destinati a svolgere anche servizi durante i quali possono indossare i pantaloni corti (es. i bermuda in servizio su navi in mare) e che una gamba con un tatuaggio potrebbe anche trasformarsi in uno strumento di identificazione del militare, in tal modo potenzialmente destinato ad affrontare condizioni di maggior rischio nello svolgimento della sua attività istituzionale di contrasto alla criminalità (…)”.
Vista così, ha tutto un altro senso.