È noto che gli attori greci e romani e, successivamente, i comici della commedia dell’arte, durante le loro performance utilizzavano le maschere; la loro funzione era quella di rappresentare caratteri, prima ancora che personaggi, che, dunque nascevano attorno ed in funzione dell’“espressione indossata”.
Caratteristica precipua della maschera era, ovviamente, la sua staticità; per cui, in difetto della mimica del viso, era il linguaggio del corpo a doversi esprimere.
Anche la recitazione aveva ovviamente la sua parte e, dunque, l’intonazione e l’espressione vocale completavano a loro volta la struttura del personaggio.
Immaginiamo ora, ai giorni nostri, una recitazione completamente muta, senza battute né dialoghi, affidata ad attori nascosti dietro maschere: è pensabile che, ad un pubblico moderno, avvezzo alla comunicazione diretta e immediata, essa possa essere in grado di raccontare sentimenti e riuscire perfino a far emozionare, far ridere o piangere, o creare tensione? È possibile che tutto questo possa essere trasmesso senza nemmeno una parola, ma utilizzando soltanto i movimenti del corpo, la gestualità e ricorrendo a oggetti, musiche e altri simboli evocativi?
La risposta è sì, se a proporre questo straordinario esperimento è la Familie Flöz, la fortunata compagnia teatrale tedesca che, dal 1994 (anno in cui è nata, da un’idea di un gruppo di studenti di recitazione e mimo della Folkwang Universität di Essen, sotto la guida di Hajo Schüler, Markus Michalowskie e Michael Vogel) ha riscoperto e riproposto un modello antico di recitazione, rivisitandolo in una chiave più adatta alla modernità, senza tuttavia snaturarlo.
Il risultato è stato la realizzazione e la sperimentazione, in questi trent’anni, di quindici opere, diverse per genere ma universalmente comprensibili oltre ogni barriera linguistica (e, difatti, esse sono state rappresentate in 34 nazioni), grazie, appunto, all’uso del linguaggio del corpo, di maschere e travestimenti, attraverso cui vengono veicolati, in maniera efficace, vicende e sentimenti umani.
Al Teatro Sala Umberto di Roma si è appena conclusa – in coincidenza con la finale sanremese (alla quale l’ho di gran lunga preferita) – l’ultima replica di “Hotel Paradiso”, uno dei lavori più conosciuti della compagnia: un “triller-teatrale” ambientato in un albergo alpino diretto da un’anziana proprietaria, vedova, e da due figli in evidente attrito tra loro, dal momento che l’uno tenderebbe ad una gestione più tradizionale e conservativa, l’altra avrebbe invece pretese innovative. Sullo sfondo, si muovono una serie di altri personaggi che rappresentano altrettante tipologie umane: la cameriera cleptomane, il cuoco-macellaio (che incarna la nota noir della storia), bizzarri avventori dell’hotel, ispettori di polizia e anche un ispettore d’alberghi, che sarà responsabile del malore che causerà la morte dell’anziana proprietaria quando priverà l’hotel delle sue quattro gloriose stelle.
L’impresa straordinaria è che la lunga carrellata di personaggi proposti si riconduce a quattro soli interpreti, che, grazie a travestimenti e a maschere di lattice, sono in grado di ricreare vicende e vicissitudini diverse, dando vita ad un microcosmo in cui si alternano o si scontrano realtà e umanità variegate.
Il ritmo e l’azione sono precisi e dettagliati come un ingranaggio d’orologio; i movimenti e le intenzioni che trasmettono talmente convincenti che innescano nello spettatore un meccanismo di partecipazione tale per cui è la sua immaginazione a sopperire all’espressività che manca ai volti delle maschere e persino ai dialoghi, tanto che la sensazione è, infine, quella di aver assistito a conversazioni e scambi di battute che in realtà non ci sono mai stati.
L’impressionante “incantesimo” prodotto dai quattro straordinari artisti è quello di superare l’ostacolo di un volto finto ed immobile riuscendo a trasmettere ogni singola emozione voluta e ricercata. È come se il movimento del corpo suggerisse una precisa intenzione che finisce per condizionare la percezione visiva, restituendo così allo spettatore la sensazione di un volto che si muove, adattandosi all’intenzione che deve trasmettersi. Razionalmente e realmente la fissità resta, eppure ciò che arriva ai sensi la infrange, lasciando spazio a personalità ed espressioni perfettamente corrispondenti al personaggio che ci si è immaginato.
Così paura, desiderio, gioia, rabbia, ingenuità, scaltrezza, giungono distintamente al pubblico, che percepisce il cambiamento di ogni personaggio - dei suoi umori e delle sue emozioni – solo osservandone i movimenti e la postura del corpo, senza necessità che sia sostenuto dal linguaggio verbale.
Il risultato è una poesia, un’alchimia perfetta di antiche arti drammaturgiche e modernità che risveglia il potere immaginativo relegato nella parte fanciullesca dell’animo umano, consentendogli di operare la magia di creare ciò che vuol sentire, che si tratti di malinconia, tenerezza, simpatia o d’ogni altro pungolo dei sensi.
Per chi volesse provare a stupirsi, prossimamente la Familie Flöz si esibirà ancora con Hokuspokus – altro spettacolo del suo repertorio – a:
Firenze, teatro Puccini, il 2 e 3 marzo 2024;
Foggia, teatro Umberto Giordano, il 5 e 6 marzo 2024;
Bari, teatro Piccinni, dal 7 al 10 marzo 2024;
Napoli, teatro Bellini, dal 23 al 28 aprile 2024.