Gli esperti concordano: stiamo vivendo soltanto i primi passi di una nuova epoca ad alto tasso di tecnologia destinata a trasformare in modo radicale tanto la società quanto l’economia. Da qui in poi, le “macchine” saranno sempre più in grado di compiere azioni e ragionare in proprio, svolgendo funzioni che finora sono state prerogative uniche dell’essere umano.
Certo, tutto questo avrà un prezzo e un peso specifico, perché sono numerose le professioni destinate a scomparire, ma altrettante quelle nuove, pronte a trasformarsi in opportunità al momento ancora impensabili.
Secondo alcuni studi dell’FMI (Fondo Monetario Internazionale) l’IA avrà il potere di influenzare il 40% dei posti di lavoro, con un possibile allargamento fino al 60% nelle economie sviluppate, ma mentre metà delle professioni potrebbe migliorare in termini di produttività, l’altra metà rischia una diminuzione della domanda di lavoro, con salari ridotti e la scomparsa di mansioni.
Ma per quanto una lunga teoria di film di fantascienza dispotici ci abbiano inculcato il timore che le macchine un giorno possano prendere il sopravvento sull’umanità, fermare il progresso non è possibile, e nemmeno auspicabile. E allora, in fondo, vale ancora una delle frasi attribuite a Giulio Cesare: “Se non puoi sconfiggere il tuo nemico, fattelo amico”.
È quello che secondo il VI rapporto dell’Osservatorio di 4.Manager “Intelligenza Artificiale. Cambiamento culturale e organizzativo per imprese e manager: nuove traiettorie della managerialità”, hanno scelto di fare lo scorso settembre 10mila imprese italiane, sposando per la prima volta l’IA.
Quasi la metà delle imprese (il 48,1%) hanno scelto di integrare l’IA per migliorare i processi produttivi, mentre il 40% preferisce un uso collaborativo per sfruttarne i benefici senza però privarsidell’apporto umano.
Visto nel complesso, significa il 30% in più di aziende rispetto all’anno precedente, con una richiesta di professionisti del settore che da 40mila è schizzata fino al +650%, ovvero 300mila posizioni in più, a parziale conferma di quanto si diceva prima sulle nuove opportunità professionali pronte al decollo.
Presentato ieri a Roma in occasione dell’apertura dell’anno accademico della “Pontificia Università Antonianum”, il report offre una panoramica sul settore senza tentare di nascondere anche le difficoltà, come la diffusa disomogeneità tra le aziende più strutturate e le Pmi, realtà più piccole che per stare al passo con i tempi necessitano di investimenti tecnologici e manageriali spesso difficili da raggiungere. Il gap, spiega il rapporto, è compreso fra il 24% delle grandi aziende che scelgono di adottare l’IA, a fronte di un 5% fra le Pmi. A livello geografico, Milano, Roma, Torino, Bologna e Napoli rappresentano i punti nevralgici italiani dove l’IA viene adottata nello sviluppo di software e servizi di ricerca.
“Sebbene l’intelligenza artificiale stia rivoluzionando il mondo dell’impresa il vero valore continua a risiedere nell’intelligenza umana - sottolinea Stefano Cuzzilla, presidente di 4.Manager e Federmanager - i nostri sistemi produttivi sono miniere di saperi e abilità, in gran parte ancora inesplorate dall’IA, che aspettano di essere valorizzate. Purtroppo, ad oggi, l’investimento in formazione è ancora insufficiente rispetto alla portata delle trasformazioni in atto. Serve un concreto cambio di passo”.
Ma malgrado i numeri mostrino una crescita esponenziale, siamo solo agli albori: il 35% utilizza l’IA in maniera limitata o sperimentale, e ancora meno - l’1,9% - la considera una priorità strategica. Molte di più sono le aziende che al momento vivono la fase intermedia, quella dell’esplorazione, per capire come e dove l’IA sia in grado di migliorare i propri modelli di business. Eppure tutte concordano su quanto la leadership aziendale rivesta un ruolo centrale nel processo di adeguamento, ma anche che soltanto il 23,8% sembra realmente pronto ad accogliere l’IA nell’organico.
“L’innovazione tecnologica è un motore dello sviluppo del Paese ed è fondamentale la capacità di guidare il cambiamento per assicurare alle nostre imprese la disponibilità di competenze e di know-how adeguatamente formato, per aiutarle a massimizzare le opportunità di investimenti in nuove tecnologie ed essere più competitive sui mercati nazionali ed internazionali - aggiunge Alberto Tripi, special advisor di Confindustria per l’Intelligenza artificiale - insomma, l’IA apre nuove e ampie opportunità, cambia, trasforma ma non distrugge il lavoro, elevandone il livello qualitativo e aumentando i benefici non soltanto per le imprese ma per gli stessi lavoratori”.
Ma malgrado la richiesta, questo genere di competenze sono ancora estremamente difficili da individuare, come confermato dal 55% delle aziende interpellate nello studio di 4.Manager. Lo scorso anno, il 46% della popolazione italiana possedeva competenze digitali di base, un dato di gran lunga inferiore alla media UE, che si attesta sul 56%.
Una mancanza di personale di livello manageriale specializzato ricercatissimo dalle aziende italiane, specie fra coloro che combinano competenze tecniche, capacità di analisi critica e leadership, skills che latitano nei curriculum del 45,7% di dirigenti e manager. Tra le figure più richieste spicca l’IA Integration Specialist – considerata dal 18,6% delle imprese la figura chiave per guidare l’implementazione dell’IA - seguita dal Chief Data Officer (9,3%), dall’IA Strategy Director (8,9%), dal Data Science Manager (8,4%) e dal Chief IA Officer (7,2%).
Va da sé che a diventare una delle chiavi fondamentali dello sviluppo dell’IA è la formazione, sempre più spesso frutto di collaborazione fra aziende e università, Its Academy e centri di formazione, ma anche da realtà come 4.Manager che metterà a disposizione un sistema di Skill Intelligence basato sull’analisi di quasi mezzo milione di offerte di lavoro e dati provenienti da Inps, Sviluppo Lavoro Italia e dal sistema europeo Esco.