Alla fine, l’Ecofin, il Consiglio Economia e Finanza della UE, ha deciso: senza alcun bisogno di ulteriori discussioni rispetto alla riunione dello scorso 10 aprile, la direttiva case green è diventata legge con un “sì” che sarebbe stato compatto se non fosse stato per i voti contrari di Italia e Ungheria, più l’astensione di Repubblica Ceca, Croazia, Polonia, Slovacchia e Svezia.
In pratica, il passaggio ancora mancava per rendere vincolante l’accordo preliminare dello scorso dicembre, raggiunto dal Parlamento UE con l’obiettivo di rendere il parco immobiliare europeo a zero emissioni entro il 2050.
Sicuramente un notevole passo in avanti verso la sostenibilità ambientale sposata a piene mani da Bruxelles, ma in modo altrettanto certo una decisione che finirà per avere forti ripercussioni sia economiche che sociali per tutti i Paesi dell’Europa del Sud, Italia in prima fila, dove si concentrano la maggioranza degli edifici con più anni sulle spalle.
Con l’ultimo passaggio, ovvero la pubblicazione Gazzetta Ufficiale UE, i Paesi membri avranno due anni di tempo per integrare le nuove norme in quelle nazionali, con l’impegno di elaborare un piano strategico molto dettagliato da aggiornare obbligatoriamente ogni due anni su come pensano di intervenire per ridurre i consumi energetici. Secondo alcune stime, si parla di una direttiva che toccherà il destino oltre 5 milioni di immobili che fanno registrare le prestazioni energetiche peggiori, chiamati ad adeguarsi al primo step entro il 2030 tagliando il consumo medio del 16%, ma con il cronometro puntato sul 2035, quando il taglio dovrà essere compreso fra il 20 ed il 22%. E tutto questo in vista dell’obiettivo finale, il 2050, quando tutti gli immobili residenziali europei dovranno dimostrare consumi medi assai limitati. In base ai calcoli UE, quasi il 60% delle abitazioni europee richiede interventi di ristrutturazione entro il 2050 e soltanto un quarto degli edifici esistenti soddisfa i requisiti del nuovo regolamento.
Ai Paesi membri è concesso di decidere gli edifici su cui concentrare la direttiva, ma con il vincolo di garantire che almeno il 55% della riduzione del consumo medio di energia primaria sia ottenuto con la ristrutturazione degli edifici più energivori.
La direttiva Epbd si concentra anche sull'eliminazione dell'uso di combustibili fossili nelle abitazioni, comprese le caldaie a gas metano, per cui dal prossimo anno non sarà più consentito a nessun Paese di offrire incentivi fiscali malgrado la data di divieto sia in realtà slittata di cinque anni, dal 2035 al 2040. Al contrario, i nuovi sistemi di agevolazioni potranno (pardon, dovranno) favorire gli apparecchi ibridi che combinano caldaie e pompe di calore con centralina unica e l’elettrificazione dei riscaldamenti, tecnologie considerate fondamentali per permettere l’uso di energie rinnovabili nei nuovi edifici a zero emissioni.
Un cambiamento radicale che guarda in prospettiva a tutti i nuovi edifici costruiti entro i confini UE, rigorosamente “solar-ready”, ovvero predisposti per accogliere sui tetti impianti fotovoltaici o solari. La norma non dimentica gli stabili idonei già esistenti, che avranno tempo per installare gli impianti fino al 2027.
Altre stime, quelle più dolorose, si concentrano invece sugli investimenti necessari per rispettare una tabella di marcia stringente, con una spesa complessiva valutata in 275 milioni di euro annui, più o meno 152 in più rispetto a quelli attuali, e almeno per ora senza poter contare su ulteriori finanziamenti europei, a parte i fondi destinabili del Pnrr e quelli del Fondo Sociale per il Clima.
Il quadro della situazione italiana lo spiegano le cifre dell’Istat, secondo cui più dell’82% degli edifici in Italia – ovvero 12 milioni sui 14,5 totali – sono ad uso residenziale, con il disavanzo di 2,5 milioni riferiti ad altre tipologie. Il problema è che la maggior parte ha un’età media che l’Enea stima in 59 anni, con una classe energetica assai bassa che non va oltre G o E.
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