Sui tavoli del Consiglio europeo gli argomenti scottanti non mancano: il post-pandemia, l’economia, i migranti, la Russia e la Turchia. Ma c’è un nervo scoperto, si mormora nei corridoi di Bruxelles, che prima o poi andrà risolto. Risponde al nome di Viktor Mihály Orbán, classe 1963, premier ungherese dal 2010, quando con una frase sibillina, dichiarò sicuro “non perderò mai più”. Da allora, dopo aver stravinto tre elezioni di fila nel giro di otto anni, per molti Orbán è diventato l’ultimo “tiranno” che ancora resiste sul libero territorio d’Europa.
Più volte accusato di limitare la libertà di stampa e di perseguitare gli oppositori e le minoranze, fieramente schierato contro qualsiasi politica migratoria e di accoglienza, nel marzo dello scorso anno il premier sovranista, alfiere della “democrazia illiberale”, si è auto-attribuito pieni poteri straordinari senza alcun limite di tempo, con la scusa di dare “priorità assoluta alla salute pubblica e fermare il coronavirus”: per decreto poteva scegliere se chiudere il parlamento di Budapest, cambiare e sospendere leggi e addirittura bloccare le elezioni. Dei 27 Paesi della UE, va detto per onestà intellettuale, soltanto 14 allora hanno deciso di prendere posizione, anche se all’appello manca ancora la voce di Bruxelles. Ma c’è di più, perché Orbán stesso ha deciso di sottoscrivere la lettera di condanna contro le privazioni della libertà firmata dai 13 paesi europei, che da nessuna parte citava in modo esplicito l’Ungheria: come per dire a tutti che non si parlava certamente di lui e del suo Paese. A togliere il mondo dal profondo imbarazzo ci ha pensato ancora una volta lo stesso Viktor, che pochi mesi dopo, il 16 giugno, ha chiesto la Parlamento di votare la cessazione dei poteri speciali, annunciando la fine dell’emergenza per il 20 luglio dello scorso anno.
Ma non è che una pagina della lunga storia del “tribuno” ungherese, in piccolo capitolo di un lento percorso che va avanti da anni indisturbato piegando una dopo l’altra leggi, norme e regole fino a rimodellare il Paese a sua immagine e somiglianza, sotto gli occhi di un’Europa un po’ ipocrita che ancora non ha saputo (o voluto) trovare una risposta efficace.
Nei giorni scorsi, la storia di Orbán si è arricchita di una nuova perla: una legge che limita ai giovani l’accesso alle informazioni Lgbtq+ che ha scatenato le ire del premier olandese Mark Rutte, arrivato a dire quello che molti altri pensano da tempo: l’Ungheria non dovrebbe far parte dell’Unione Europea. Gli ha fatto eco il premier italiano Mario Draghi, che rivolgendosi a Orbán in persona ha ricordato che “L’Europa ha una storia antica di oppressione dei diritti umani per cui esiste l’articolo 2 del Trattato, sottoscritto anche dall’Ungheria”.
Il premier magiaro più longevo nella storia del suo Paese, un anti-europeista che non vuole saperne di lasciare l’Europa, ribatte che la legge “non è contro gli omosessuali, ma difende genitori e bambini”, anche se di fatto la norma vieta qualsiasi contenuto o rappresentazione di orientamento sessuale e associa l’omosessualità alla pedofilia.
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