5 novembre 2018

Crisi d'impresa e dell'insolvenza: le nozioni del codice

Autore: Simone Carunchio
Nello schema del codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, attuativo della L. delega n. 155/2017, sono fornite le definizioni di stato di crisi e di insolvenza quali requisiti per avere accesso alla ristrutturazione dell'attività o alla sua liquidazione. L'intervento mira a risolvere la problematica situazione che si è creata in relazione all'attuale legge fallimentare, in cui le nozioni si sono sovrapposte. Ciò ha generato incertezza, oltre che in ordine all'accesso alle procedure, anche in merito all'applicabilità o meno del principio di consecuzione delle stesse. Nella riforma detta ultima criticità pare superata con la previsione di una fase di allerta pre-procedurale.

L'art. 160 del R. D. n. 267/1042, l'attuale legge fallimentare (L.F.), concernente i presupposti per l'ammissione alla procedura di concordato preventivo, stabilisce, tra l'altro, che essa è riservata all'imprenditore "che si trova in stato di crisi".
L'art. 182-bis L.F., contenente la disciplina dell'accordo di ristrutturazione dei debiti, tra i requisiti soggettivi per poter accedere alla procedura indica il medesimo stabilito per concordato: lo stato di crisi.

L'art. 5, comma 1, L.F. prevede, invece, che può essere dichiarato fallito "l'imprenditore che si trova in stato di insolvenza". Al comma 2 è specificato che “lo stato d'insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”.

Sembrerebbe pertanto profilarsi una differenza, logica e condivisibile, tra i presupposti per accedere al fallimento e quelli per poter usufruire del concordato preventivo/accordo di ristrutturazione: per il primo è previsto che l’imprenditore sia in stato di insolvenza, mentre per i secondi è previsto che il medesimo sia in stato di crisi.
In realtà la legge non definisce lo stato di insolvenza, me ne indica l'esteriorizzazione. Essa deve manifestare l'incapacità dell'impresa di produrre al suo interno le risorse finanziarie necessarie a fronteggiare il proprio indebitamento. Di converso lo stato di crisi lo si potrebbe considere come una degenerazione dell'impresa meno grave di quanto possa apparire l'insolvenza.

Con l’art. 36 del D. L. n. 273/2005 (L. n. 51/2006) è stato però aggiunto all’art. 160 L.F. un terzo comma che recita: “Ai fini di cui al primo comma per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza”. Questa precisazione è stata foriera di numerosi dubbi in quanto si sono andate a sovrapporre, nella legge, due categorie che nella materia aziendalistica sono invece rigorosamente distinte. Lo scopo era quello di ampliare il bacino di utenza delle procedure 'minori' (concordato e ristrutturazione) e, nello stesso tempo, metter a tacere le controversie in merito all'applicazione o meno del principio della consecuzione delle procedure.

Detto principio operava, prima della riforma della legge fallimentare operata dalla L. n. 80/2005 e del D. Lgs. n. 169/2007, imponendo che la dichiarazione di fallimento, a seguito di inammissibilità, revoca o mancata approvazione del concordato, esplicasse i suoi effetti dalla data di presentazione del concordato stesso. A seguito della riforma, invece, stante che le condizioni di accesso alle procedure apparivano diverse (crisi e insolvenza), se ne concluse che il principio non poteva più operare.

La sua applicazione fu invece ribadita dalla Corte di cassazione (cfr. Cass. nn. 7324/2016, 18437/2010, 28445/2008, 21326/2005) e consacrata poi dalla detta introduzione del comma 3 nell'art. 160 L.F., ma questa sorta di sovrapposizione dello stato di crisi e di quello di insolvenza ha lasciato gli interpreti piuttosto perplessi, poiché, al di là del risvolto concernente l'applicazione del principio della consecuzione delle procedure, si osservava che la distinzione aveva ragion d'essere esattamente in ordine ai requisiti richiesti per accedere alle stesse, tra le quali si creava in questa maniera una gerarchia ben precisa in relazione alla gravità della degenerazione dell'attività. La crisi era infatti ricollegata a una 'crisi reversibile'; mentre l'insolvenza era identificata con una 'crisi irreversebile'. Da una parte le procedure 'minori', dall'altra il fallimento.

Nello schema di decreto legislativo recante il codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, in attuazione della L. n. 155/2017, queste difficoltà sembrerebbero superate.

Il codice rappresenta infatti un quadro normativo unitario che detta dei principi comuni al fenomeno della degenerazione dell'attività d'impresa, pur mantenendo le differenziazioni necessarie in ragione della specificità delle diverse situazioni in cui essa può manifestarsi.
Nella relazione illustrativa allo schema è poi specificato che "in quest’ottica sono stati dettati i principi generali e sono state definite alcune nozioni fondamentali nella materia in esame, a cominciare da quella di «crisi» (che non equivale all’insolvenza in atto, ma implica un pericolo di futura insolvenza) e di «insolvenza» (ribadendo in realtà la nozione già sufficientemente collaudata da molti decenni di esperienza giurisdizionale)".

La "crisi", pertanto, è un'insolvenza in potenza (secondo la nota distinzione aristotelica atto/potenza). Più oltre è poi specificato che la crisi deve essere intesa come "probabilità di futura insolvenza".

Nello schema di codice, all'art. 2, rubricato "definizioni", la "crisi" (comma 1, lett. a)) è definita " lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate"; la "insolvenza", invece, è la stessa che è possibile riscontrare nell'attuale L.F., in quanto è definita (comma 1, lett. b)) come: "lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni".

Risulta evidente che per stato di crisi non si può più intendere anche lo stato di insolvenza, come detta l'attuale L.F. nell'art. 160, comma 3.
Se, pertanto, le due nozioni non saranno più sovrapponibili, sembrerebbe che si possa riproporre la criticità inerente all'applicabilità o meno del principio di consecuzione delle procedure.

In realtà detto problema appare invece definitivamente superato perché l'accesso alle procedure di ristrutturazione o di liquidazione deve essere preceduto da una fase di allerta (forse la più importante novità dello schema legislativo) attraverso la quale sia possibile determinare lo stato degenerativo dell'attività d'impresa. Questo procedimento è, infatti, destinato a esaminare e accertare le situazioni di crisi o di insolvenza in vista dell'adozione della soluzione più appropriata. In questo senso si evita che una procedura 'minore' possa poi sfociare in un'attività di liquidazione, perché durante la fase di allerta si sarà già determinato lo stato dell'imprenditore e il relativo strumento da adottare.
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