8 novembre 2018

Reati tributari. Da ricercare il “profitto” nelle casse della società

Autore: Paola Mauro
In caso di reati tributari commessi a vantaggio di una società, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente può essere disposto nei confronti dell’amministratore soltanto quando, all'esito di una valutazione sullo stato patrimoniale della persona giuridica, risulti impossibile, nei confronti di quest’ultima, il sequestro “diretto” del profitto del reato.

Lo ha precisato la Corte di Cassazione (Sez. 3 Pen.) nella lunga sentenza n. 49199 depositata il 29 ottobre 2018.

In applicazione del principio, la Suprema Corte ha annullato senza rinvio l’ordinanza con cui, nell’ambito di un’indagine per il reato di omessa dichiarazione ex art. 5 D.Lgs. n. 74/00, il Tribunale del Riesame ha respinto l’istanza presentata da un imprenditore pugliese, volta all’annullamento del decreto di sequestro preventivo per equivalente disposto dal GIP sui suoi beni personali o comunque nella sua disponibilità, fino alla concorrenza di 257mila euro.
  • Ricorrendo per cassazione l’indagato, tramite il difensore di fiducia - tenuto conto dell’insegnamento delle Sezioni Unite -, ha dedotto il difetto di motivazione nella parte in cui il Giudice di merito ha escluso che il Pubblico Ministero avesse l'onere di aggredire direttamente i beni della società, quale “profitto” del reato, prima di procedere con il sequestro “per equivalente” in danno al suo legale rappresentante/amministratore.

Ebbene, accogliendo il ricorso, gli Ermellini hanno rilevato, in particolare, che, secondo le Sezioni Unite, il “profitto” del reato, confiscabile anche nella forma per equivalente, è costituito da qualsiasi vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione dell’illecito e può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi e sanzioni dovuti a seguito dell'accertamento del debito tributario (Cass. Sez. Un., n. 18374 del 31/01/2013).

Il profitto del reato tributario s’identifica, dunque, con il vantaggio economico derivante in via diretta e immediata dalla commissione dell'illecito; conseguentemente, il mancato pagamento delle imposte (nella specie, per omessa dichiarazione) comporta un vantaggio economico derivante dal risparmio delle somme non versate all'Erario e, pertanto, nel caso d’illecito commesso da organi societari, il denaro eventualmente esistente nelle casse della società o investito in titoli (Cass. Sez. U, n. 31617 del 2015; Cass. pen. Sez. 6, n. 23773 2003) può e deve sequestrarsi in via diretta, ove possibile (sulla questione della confisca diretta del denaro si veda Sez. Un. n. 10561 del 2014).

Spiega, ancora, la Suprema Corte che, in tema di sequestro preventivo, la nozione di profitto funzionale alla confisca comprende non soltanto i beni appresi per effetto diretto e immediato dell'illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell'attività criminosa (Cass. pen. Sez. 2, n. 45389 del 2008; (Cass. pen. Sez. 6, n. 4114 del 1994).
  • Va detto, poi, che: «In caso di reati tributari commessi dall'amministratore di una società, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente può essere disposto, nei confronti dello stesso, solo quando, all'esito di una valutazione allo stato degli atti sullo stato patrimoniale della persona giuridica, risulti impossibile il sequestro diretto del profitto del reato nei confronti dell'ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato» (Cass. pen. Sez. 4, n. 10418 del 2018).

Nel caso di specie, pertanto, il Giudice per le indagini preliminari ha sbagliato quando ha escluso in radice la possibilità del sequestro preventivo diretto nei confronti della società per le ipotesi di reato ex art. 5 D.Lgs. n. 74/2000.

E perciò il ricorso dell’imprenditore è stato accolto dagli Ermellini, perché il sequestro è stato direttamente disposto nella forma “per equivalente” nei confronti del ricorrente, mentre occorreva un’analisi, in fatto, della possibilità concreta del sequestro “diretto” nei confronti della società dallo stesso rappresentata e amministrata.

La situazione, insomma, imponeva un accertamento preliminare in merito all’eventuale sussistenza nel patrimonio aziendale di beni direttamente riconducibili al profitto del reato fiscale. In assenza di tale accertamento, la Suprema Corte ha ritenuto di dover disporre l’annullamento dell’ordinanza impugnata senza rinvio e la restituzione di quanto in sequestro all’avente diritto.
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