10 ottobre 2018

Robot tax

Autore: Giovambattista Palumbo
L'eventuale contrazione del lavoro umano a causa della diffusione dei robot potrebbe avere conseguenze piuttosto dirette sulle entrate fiscali. Questo vale per i Paesi occidentali, ma in particolare per l'Italia, dove la percentuale del gettito totale che deriva dal reddito da lavoro tocca il 73 per cento, mentre la tassazione del reddito di impresa produce una quota del 17. Le forme di prelievo sull'attività dai robot, ipotizzate nella letteratura internazionale, vanno da un'imposizione diretta, aggiuntiva, sulle imprese che usano questa tecnologia, alla tassazione sul virtuale compenso che avrebbero i robot in quanto sostituti degli esseri umani. Un tema certamente interessante.

Stando a una ricerca dell’Università di Oxford, nell’arco dei prossimi dieci anni, gli sviluppi nel campo dell’intelligenza artificiale potrebbero favorire la sostituzione di lavoratori con macchine in quasi la metà dei settori dell’economia.
Per l’Ocse, però, il fenomeno non dovrebbe preoccuparci troppo, dato che, in media, solo il 9% dei lavori in ciascun settore sarebbe effettivamente automatizzabile.

Ciò nonostante, sembra ormai diffuso nell’opinione pubblica il convincimento che occorra far qualcosa per cercare di governare il processo.
L’idea di introdurre una “Robot Tax” parte dalla considerazione di considerare il robot un centro autonomo di posizioni giuridiche, come anche la UE, in una propria raccomandazione del 16 febbraio 2017, sembrerebbe suggerire.
L’alternativa sarebbe invece ipotizzare una sorta di imposta sull’attività produttiva (e non sul robot in sé considerato), che, diventando più efficiente attraverso l’automazione, giustificherebbe un maggior prelievo fiscale, da utilizzarsi magari per la riqualificazione dei lavoratori esautorati dai processi produttivi automatizzati.

La robot tax, a ben vedere, esiste già.
Se un’azienda, sostituendo 50 dipendenti con i robot, ha più utili, su quelli dovrà già pagare le tasse.
Il problema, semmai, risiede nel fatto che quella società che fa più utili trasferisce la sede in un paradiso fiscale, o comunque effettua una pianificazione fiscale aggressiva in grado di azzerare il pagamento delle imposte (già) dovute. Come appunto succede nel caso delle grandi multinazionali del web o della digital economy.
Ma questo è un problema, potremmo dire, “ordinario” di contrasto all’evasione fiscale.
Imporre una tassa, d’altro canto, rischierebbe di rallentare il ritmo dell’innovazione tecnologica e della crescita della produttività del lavoro.
L’esigenza, allora, non è quella di ostacolare le innovazioni che risparmiano lavoro, ma piuttosto quella di individuare criteri che consentano di distribuire sull’intera collettività i benefici potenziali di tali cambiamenti tecnici.

Se i robot vengono utilizzati dalle imprese, che aumentano così i loro profitti, e se la quota dei profitti sul reddito nazionale cresce, il maggior prelievo potrebbe quindi riguardare i profitti crescenti, per esempio rendendo progressive le imposte sulle società (o quanto meno su quelle che risultano ad alto tasso di automazione).
Più difficile immaginare un sistema in cui vengono individuati i singoli robot da colpire.
Secondo uno studio Accenture presentato all’ultimo World Economic Forum di Davos gli investimenti in intelligenza artificiale potrebbero del resto far crescere del 38% i ricavi delle imprese entro il 2020.
Quindi, in termini concreti, le strade per impostare una tassazione specifica su questo settore potrebbero essere sostanzialmente tre:
  1. Incrementare (o progressivizzare) la tassazione sulle imprese che si avvalgono di robot (prevedendo comunque anche meccanismi di reinvestimento degli utili a tutela dei lavoratori).
  2. Considerare i robot come soggetti potenzialmente imponibili, creando magari un nuovo statuto giuridico di "persona elettronica", ed identificando il soggetto giuridico assoggettato all'imposta al quale è riconducibile il robot.
  3. Spostare la tassazione dal lavoro agli altri redditi, mantenendo in tal modo costanti gli introiti e cercando di sostituire, per esempio, i contributi sociali basati sulle retribuzioni con un prelievo sul valore aggiunto.

In sostanza, la soluzione consiste nell’individuare ed intercettare le nuove basi imponibili, laddove senz’altro oggi le nuove fonti di produzione della ricchezza sono Internet e l’automazione, settori però ignorati o esentati dalle esistenti leggi fiscali.
In conclusione, più che far pagare ai robot le imposte sul reddito, si dovrebbero tassare le imprese che godono dei profitti derivanti dall’impiego dei robot, risparmiando sui costi del lavoro umano sostituito.
La ratio sarebbe quella per cui investire nei robot è come investire in un generatore di carbone, che aumenta sì la produzione economica, ma, al contempo, impone anche un costo sociale, quale quello della disoccupazione.
Una tassa appropriata e ben calibrata sui robot potrebbe allora avere un valore strategico cruciale, così come una tassa sulle emissioni nocive.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
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