La shrinkflation è una pratica sempre più diffusa: le aziende riducono le quantità di prodotto nelle confezioni mantenendo inalterato il prezzo, o addirittura aumentandolo. La strategia interessa diversi settori, dai prodotti alimentari ai detersivi, fino ai beni per la cura della persona. Si tratta di un modo per far fronte all’aumento dei costi delle materie prime senza scoraggiare i consumatori con un incremento visibile del prezzo. Tuttavia, questa scelta finisce per generare insoddisfazione e accuse di speculazione, spingendo alcuni Paesi a intervenire.
Italia e Francia si sono mosse per prime in Europa, introducendo norme per arginare il fenomeno. In Italia, la misura è stata inserita nel Codice del Consumo con l’art. 15-bis, che obbliga i produttori, dal 1° aprile 2024, a indicare chiaramente sulla confezione se la quantità di prodotto è stata ridotta senza modificare l’imballaggio. Questa comunicazione deve essere visibile per almeno sei mesi, con l’obiettivo di garantire maggiore trasparenza per i consumatori.
Il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ha elogiato l’iniziativa, definendola un passo avanti per la tutela dei cittadini: «L’Italia si è mossa subito per frenare la shrinkflation, facendo da apripista in Europa insieme alla Francia». Tuttavia, l’entusiasmo iniziale si è presto scontrato con un ostacolo significativo: le regole dell’Unione Europea.
Bruxelles, infatti, ha contestato l’approccio italiano, accusandolo di violare le norme comunitarie. Nonostante la Francia abbia adottato una misura simile, è riuscita a rispettare le procedure previste dal diritto europeo, evitando conflitti. L’Italia, invece, si è trovata in difficoltà per non aver seguito correttamente la procedura TRIS, che richiede di notificare alla Commissione Europea qualsiasi normativa tecnica potenzialmente in grado di influire sul mercato unico europeo.
Nel dettaglio, il governo italiano aveva notificato la misura alla Commissione il 7 ottobre 2024, avviando il cosiddetto periodo di standstill, durante il quale gli Stati membri e la Commissione possono esaminare la proposta e sollevare eventuali perplessità. Questo periodo iniziale, di tre mesi, può essere prorogato per ulteriori tre qualora emergano dubbi sulla compatibilità della norma con il diritto europeo. Durante tale periodo, il Paese proponente non può adottare la norma definitiva.
Ed è qui che l’Italia ha commesso un errore. Nonostante il periodo di standstill fosse stato prorogato fino all’8 aprile 2025, il governo ha approvato definitivamente la legge il 12 dicembre 2024, ignorando le richieste della Commissione. Questa mossa rischia di creare barriere alla libera circolazione delle merci, andando contro uno dei principi cardine dell’Unione Europea.
Le conseguenze potrebbero essere gravi. Bruxelles potrebbe avviare una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia, con la possibilità di imporre sanzioni. Inoltre, sul piano interno, qualora un giudice italiano si trovasse a dover applicare la norma, potrebbe disapplicarla, dando priorità alle disposizioni europee, come previsto dalla gerarchia delle fonti.
Nonostante le buone intenzioni, l’iniziativa italiana rischia di rivelarsi un boomerang. La tutela dei consumatori è certamente un obiettivo lodevole, ma non può prescindere dal rispetto delle regole comunitarie. Ora il governo è chiamato a gestire le conseguenze di un approccio frettoloso, con la speranza di trovare un punto d’incontro con l’Unione Europea per salvare una norma che, se ben calibrata, potrebbe rappresentare un importante passo avanti nella lotta contro le pratiche commerciali ingannevoli.
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