25 settembre 2013

DI PROCLAMI SI MUORE

A cura di Antonio Gigliotti

Cari amici e colleghi,

è con immensa tristezza che mi accingo anche quest’oggi a condividere con voi le mie riflessioni su una realtà economica devastante. Più leggo i giornali, più mi rendo conto di quanto sia difficile non solo essere un semplice contribuente italiano, quanto anche fare impresa. Mettendoci al riparo da qualsiasi apologia dell’evasione fiscale, nelle scorse settimane abbiamo ripetuto (più volte) come questo fenomeno sia spesso generato anche dal bisogno di aggrapparsi a una possibile sopravvivenza, visto che alla grave congiuntura economica in Italia dobbiamo fare i conti anche con una pressione fiscale tra le più alte della zona euro.

Essere un imprenditore italiano, che decide di restare in Italia e di pagare i propri dipendenti, alla lunga diventa quasi impossibile. Non v’è alcun sostegno. Da un lato abbiamo uno Stato che è sempre più lento nel pagamento dei propri debiti contratti con le imprese, dall’altro dobbiamo confrontarci con le banche che, pur essendo gli unici enti ad aver ricevuto aiuto durante la crisi, non sono molto propense ad aprire i rubinetti a sostengo delle aziende.

A tal proposito, nei giorni scorsi leggevo dell’allarme lanciato da Unimpresa, secondo il quale più del 62% delle aziende aderenti alla micro, piccola e media distribuzione hanno dovuto chiedere un finanziamento per fronteggiare gli adempimenti fiscali. In sostanza, su un campione di otto aziende, ben cinque di esse chiedono un prestito per pagare le tasse. È chiaro che quando poi il finanziamento serve per dare gas al motore della produttività, le banche dicono no. Una situazione del genere aumenta l’indebitamento, abbassa la lancetta della liquidità e blocca l’economia. Tra le imprese esaminate, sono più di 76.200 quelle che nei primi sei mesi dell’anno in corso hanno chiesto un debito per adempiere agli obblighi fiscali e le tasse più temute sono state Imu e Irap, per quest’ultima in particolare l’allerta è stata maggiore poiché si deve pagare anche nel caso in cui i bilanci siano in perdita. Purtroppo una situazione del genere è solo apparentemente proficua, perché se oggi un’azienda chiede un prestito bancario per pagare le imposte, il prossimo anno se ha intenzione di richiedere un finanziamento per effettuare degli investimenti, troverà le porte chiuse in banca in quanto già affidato.

E, come ho accennato, se da un lato le imprese devono lottare con le banche ostili, dall’altro devono fronteggiare uno Stato che non è da meno. Si fa un gran parlare di aumento Iva, per evitare il quale sarà opportuno trovare la copertura entro venerdì, tuttavia adesso il Tesoro, in particolare, e il governo, in generale, hanno un problema ben più grosso: quello del rapporto deficit/Pil. A ben vedere, dai calcoli del Ministero economico guidato da Fabrizio Saccomanni sarebbe scappato uno 0,15% di deficit di troppo, il quale dovrà essere eliminato altrimenti la Commissione Ue riaprirà a carico del nostro Paese la procedura per deficit eccessivo. La prima bacchettata europea è infatti arrivata proprio in questi giorni ed abbiamo rischiato anche le dimissioni del ministro dell’Economia, che avrebbe generato un’ulteriore crisi in seno alla squadra esecutiva.

Dunque, di non aumentare l’Iva al momento non se ne parla, perché bisogna risolvere questo problema di calcolo che però non è l’unica critica mossaci dall’Ue. In sede europea hanno infatti sottolineato la lentezza dei pagamenti dei debiti contratti dallo Stato con le imprese fornitrici di beni e servizi, la cui attesa sta superando la media dei due anni nonostante i quotidiani annunci di sblocchi e risorse disponibili. Anche questi ritardi infatti generano un decremento produttivo, in quanto limitano la liquidità delle imprese coinvolte che sono quasi sempre delle medie o piccole realtà.

E una vicenda che si interseca a quella del pagamento dei debiti riguarda il rimborso dei crediti Iva. Lo Stato non li paga subito, anzi si nasconde dietro cavilli normativi per poter ottenere più tempo del dovuto. Intanto le imprese muoiono sempre della stessa malattia: mancanza di liquidità. Sul caso la Commissione europea sta per aprire una procedura di infrazione contro il nostro Paese.

Purtroppo però, come dicevamo qualche giorno fa, in Italia non v’è alcuna certezza del diritto, perché sebbene vi siano le leggi che regolano questi passaggi, quando è lo Stato a doverle rispettare queste sì che diventano ‘blande’ (come affermava ‘qualcuno’). E a rimetterci, nella maggior parte dei casi, sono le aziende virtuose, ossia quelle che non si sono mai trovate in posizione irregolare rispetto al fisco. Prendiamo ad esempio il caso in cui un’azienda abbia effettuato un investimento di rilevante entità; in questa situazione non dovrà essere detratta solo la quota di ammortamento del bene, ma anche l'Iva di importo rilevante. In tale fattispecie la penalizzazione coincide col fatto che va a crearsi un credito Iva importante. Purtroppo però, nonostante l’articolo 22 della direttiva 2009/9/Ce stabilisca che il pagamento debba avvenire entro i dieci giorni dallo scadere dei quattro mesi disponibili per la contestazione delle istanze di rimborso, l’attesa sarà biblica. E questo è il primo ostacolo che andrebbero a incontrare le imprese rette. Tuttavia la questione non si chiude qui, perché vi sono altri intralci che rendono la sopravvivenza ancora più ardua.

E sì, perché in Italia devi dare anche delle garanzie nonostante tu sia beneficiario di un diritto, che dovrebbe invece essere riconosciuto di default! Per ricevere il rimborso spettante, infatti, le imprese italiane, in generale, sia per ottenere l'erogazione dei rimborsi di competenza dell'agente della riscossione sia per quelli erogabili dall'Agenzia delle Entrate competente, devono prestare una garanzia, con annessi costi nonché l’impegno delle linee di credito.

La garanzia non è necessaria solo se la richiesta di rimborso non è superiore a 5.164,57 euro o al 10% dei versamenti effettuati sul conto fiscale nei due anni precedenti la data della richiesta di rimborso, o ancora se non è superiore a 258.228,40 euro, se presentata dal curatore fallimentare o dal commissario liquidatore.
Anche le imprese cosiddette "virtuose" – seppur limitatamente a richieste di rimborso per importi superiori a euro 2.582,28 e in caso di maturazione di un credito Iva elevato per cause ben precise, individuate dalle lett. a), b) e d) dell'art. 30, D.P.R. 633/1972 - non devono prestare garanzia. Sono definiti “contribuenti virtuosi”, dunque, solo le imprese che soddisfano i requisiti di affidabilità e solvibilità fissati dall'art. 38-bis, co. 7 del D.P.R. 633/1972.
Ora, ciò che fa sorridere è che una delle condizioni di affidabilità e solvibilità elencate nel settimo comma dell’articolo 38 bis D.P.R. 633/72 è che l’attività sia esercitata dall'impresa da almeno cinque anni.
Dunque, se ne deduce che le imprese ‘giovani’, se pure dimostrino d’essere virtuose, saranno comunque maggiormente penalizzate rispetto a quelle più ‘anziane’.

Questo ragionamento al quale il Fisco italiano, ma anche i governi che si sono succeduti, ci hanno abituati è una vera e propria contraddizione con il comportamento che essi adottano nei nostri confronti. Pretendono ‘fedeltà’, ‘puntualità’ e ‘onestà’, tuttavia non sono in grado di ricambiare quando a dover metterci i soldi sono loro. Non possiamo più permetterci di credere ai loro proclami come se fossero verità inconfutabili, o saremo anche noi complici di un bluff che si sta mostrando sempre più triste. Il filosofo francese Jean Meslier scriveva che “se crediamo a delle assurdità, commetteremo delle atrocità”.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
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