La morte di Jim Redmond (avvenuta lo scorso 2 ottobre a 81 anni) non è una notizia tale da tener testa alle tante, più o meno gravose (dalla minaccia di una guerra nucleare al caro bollette, fino a scendere ai più infimi gradini delle questioni di stile del Grande Fratello), che occupano i notiziari di questi giorni.
Del resto non saranno in molti a conoscerlo.
Eppure il breve episodio di cui si è reso protagonista nell’estate del 1992 è tra quelli più significativi e commoventi passati alla storia dello sport, e non serve essere appassionati sportivi per apprezzarlo e restarne incantati.
Il suo nome è legato a quello del più noto Derek Redmond, pluripremiato velocista britannico.
Suo figlio.
Derek (classe 1965) correva da quando era bambino, sempre incoraggiato e sostenuto da quel padre che vedeva in lui la stoffa del campione. E difatti Derek lo era, tanto che, non ancora ventenne, aveva stabilito il record britannico nella corsa dei 400 metri piani. A seguire aveva vinto anche un argento mondiale e un oro europeo, prima di arrivare nel 1988 alle Olimpiadi di Seul.
E proprio lì era successo la prima volta.
Nelle batterie di qualificazione, durante il riscaldamento, quando mancava pochissimo all’inizio della gara, Derek aveva sentito un dolore lancinante a una gamba: il tendine d’Achille aveva ceduto, impedendogli di gareggiare.
Per lui era stata inaccettabile l’umiliazione di vedere scritta in fondo al tabellone, a fine gara, la dicitura “Dnf” - Did not finish (non ha finito) accanto al suo nome.
Determinato a non arrendersi, si era perciò sottoposto a diversi interventi chirurgici, riuscendo infine a tornare in pista e ad ottenere nuovamente la qualificazione alle Olimpiadi, quelle di Barcellona del 1992 - sempre per i 400 metri piani - dopo aver anche vinto un oro, l’anno prima, nella staffetta 4×400 metri ai mondiali di atletica di Tokyo.
Era decisamente in forma: aveva ottenuto il miglior tempo nelle eliminatorie e vinto la sua batteria dei quarti di finale, presentandosi così alla semifinale.
Quel giorno occupava la corsia numero 5, dal cui blocco si era staccato velocissimo, lungo il primo rettilineo, quando lo sparo di partenza aveva dato il via.
Erano trascorsi però solo sedici secondi ed era successo ancora: di nuovo quel dolore, quella fitta improvvisa e acuta, stavolta al bicipite femorale.
Derek aveva provato a resistere; aveva fatto qualche altro passo, infine si era accasciato al suolo, in lacrime, tenendosi il volto tra le mani.
“Dnf” - Did not finish.
Quella dicitura lampeggiava nella sua mente, dove già si proiettava la schermata del tabellone prima ancora che la gara fosse finita. No, non poteva succedere un’altra volta: sarebbe stato l’ultimo tra i concorrenti e quella sarebbe stata probabilmente la sua ultima gara, ma non ci sarebbe stato di nuovo quel marchio accanto al suo nome.
Gli altri concorrenti lo avevano superato ed erano già arrivati al traguardo quando lui si era rialzato e, tra le lacrime ed il dolore che gli distorceva i lineamenti del viso, aveva ripreso la sua corsa, saltellando su una gamba sola.
Ed era stato in quel momento che Jim era entrato in scena.
Scartando tutte le guardie di sicurezza era sceso sulla pista e, arrivato accanto a suo figlio, gli aveva messo un braccio attorno alla vita lasciando che lui si appoggiasse alla sua spalla:
- «Derek, sono tuo padre. Non sei obbligato a finire la corsa; sei un campione, non hai nulla da dimostrare».
- «Papà, voglio portare a termine questa gara».
- «Ok, allora la finiremo insieme».
E così, abbracciati, zoppicando insieme, avevano proseguito la corsa verso la linea del traguardo.
Sulla pista erano rimasti solo loro due.
Quando mancavano meno di cinque metri all’arrivo, Jim si era sciolto dall’abbraccio per lasciare che Derek tagliasse da solo il traguardo. Dopotutto, quella era la sua gara.
Lo aveva poi atteso al di là della linea, ad accoglierlo tra quelle braccia in cui l’aveva tenuto milioni di volte quand’era bambino.
Solo in quel momento, ancora tra le lacrime, Derek aveva rivolto lo sguardo verso gli spalti dove tutto il pubblico stava applaudendo, tributando una standing ovation a quei due campioni di determinazione, forza e umiltà.
Quella fu davvero l’ultima corsa di Derek: lo strappo era stato talmente profondo che i medici avevano escluso che potesse tornare a correre.
Suo padre, vent’anni dopo, venne scelto come tedoforo per i Giochi del 2012 a Londra: la sua era la figura perfetta per rappresentare l’autentico spirito olimpico.
Ma le immagini di quella meravigliosa “corsa dell’amore”, così pregna di senso di sacrificio, di orgoglio e di sana competizione, sono rimaste ferme nel tempo, a primeggiare con la loro bellezza tra i momenti più meravigliosi e toccanti della storia delle Olimpiadi.
Né Derek né tanto meno suo padre sono saliti sul podio, ma nessuno nega che siano stati loro i campioni di quella straordinaria gara.
Riposa in pace Jim Redmond, esempio eccezionale di un amore che nel breve spazio di 400metri ha saputo rivelare al mondo intero la sua immensità.