La foto più diffusa del raid in cui, qualche giorno fa, sono morti i sette volontari di World Central Kitchen è già diventata un simbolo: ritrae, sventrato, uno dei veicoli su cui viaggiavano e, al di là dello squarcio che ne ha polverizzato l’abitacolo, lo sguardo di due bambini. Sono visi inespressivi, privati anche della curiosità tipica della fanciullezza; sembrano, anzi, ormai quasi rassegnati di fronte all’ennesima, assurda, forma di crudeltà che da mesi sono costretti a subire e che ha già distrutto le loro case e le loro cose, ucciso i loro partenti, e che adesso porta via anche quel poco d’aiuto e d’umanità necessari e sufficienti a sopravvivere.
La Fase 5 – quella della carestia, già annunciata dall’ONU – è ormai imminente, e perdere aiuti concreti, che si sostanziano banalmente in un pasto o nella distribuzione di minimi generi di conforto è, perciò, l’ulteriore conferma di un percorso verso un abisso di fame e disperazione senza ritorno, di un’agonia che semplicemente rimanda il tempo di una morte ormai certa.
Qualcuno l’ha sospettato che quest’ultimo attacco non sia stato affatto un errore, ma una ben precisa e studiata strategia per colpire subdolamente le ultime risorse di vita e resistenza su cui confida un popolo ormai stremato. La morte di quei sette volontari, il bersagliamento del loro convoglio, non sono stati un incidente, ma un chiaro e deliberato attacco alla cooperazione e alla solidarietà internazionale.
Cento tonnellate di aiuti umanitari, portati via mare da Cipro e destinati a Gaza; un carico appena sistemato nei magazzini; un percorso concordato con l’esercito israeliano; un ente - il World Central Kitchen (WCK) - nato proprio con lo scopo di fornire pasti in luoghi di emergenza per disastri naturali o d’altro genere; sette volontari ormai conosciuti, volti amici, instancabili esecutori di un servizio reso con dedizione e sprezzo d’ogni pericolo, in nome della necessità e della cura degli esuli e dei superstiti. Eroi.
Ed è così che li piange la loro famiglia d’adozione, il WCK, scrivendolo accanto ai quadrati che ritraggono i loro volti: “The WCK family mourns the loss of these heroes”, “Zomi” Damian, Saifeddin Issam, Jacob, Jhon, Jim e James.
Le loro famiglie di sangue, invece, li piangono come vittime indirette di un disastro umanitario senza ragioni accettabili, consolati solo dalla consapevolezza che il loro sacrificio è stato coerente con i loro ideali. Dice infatti la madre di Zomi che la figlia "era il tipo di persona che se ci fossero stati problemi da qualche parte avrebbe mollato tutto e sarebbe andata lì”.
L’Errore non ha causato però solo l’interruzione di un singolo intervento; ha reciso un’arteria vitale, un canale che serviva a consentire che anche altre organizzazioni umanitarie facessero la loro parte: la stessa cooperazione italiana, dacché non ha più fondi, era solo grazie al cibo che portava la WCK che poteva ancora riempire le sue cucine e distribuire pasti a Rafah e a Deir el Balah.
La dinamica stessa dell’Errore pare poco idonea ad ammetterlo, tanto è sembrato l’accanimento con cui si è compiuto. Il drone assassino che ha attaccato il convoglio lo avrebbe bombardato tre volte di seguito, poiché i volontari, sopravvissuti al primo colpo, avrebbero cercato di ripararsi in un altro veicolo e poi ancora in un terzo, l’ultimo, in cui sono poi morti. Nel mentre, avrebbero avuto anche la prontezza di avvisare superiori dell’attacco che stavano subendo e lo zelo di spostare i corpi dei feriti nel tentativo di metterli in salvo. Il tutto mentre il convoglio – che viaggiava adeguatamente autorizzato e segnalato con il GPS, in una zona senza scontri, con il marchio e il logo del WCK – continuava ad essere “involontariamente” colpito.
Di fronte a tanta precisione, effettivamente legittimo appare allora il dubbio circa l’assenza di un qualche regìa e fondato il sospetto che una ben puntuale strategia sia stata messa in atto. Dopotutto, in guerra come in amore tutto è lecito, si dice.
Ma la guerra è già di per sé e prima di tutto un girone d’Inferno: lo è per chi muore, lo è per chi resta. Ed è perciò aberrante che a questi ultimi debba spettare in sorte persino un ulteriore patimento, non dissimile da quello toccato nella Torre della Muda al conte Ugolino, incisivamente racchiuso da Dante in un unico verso: “Poscia, più che 'l dolor poté 'l digiuno”.
Che possa esserci salvezza a tanta atrocità!