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90 anni

Autore: Ester Annetta
Il sorriso “basso” - quello che si fa con la bocca - è appena accennato, per non rivelare quella finestrella tra i denti laterali che si è aperta qualche tempo fa e che non ha voluto riempire con una protesi, fedele a quella “sincerità biologica” con cui ha pure accettato che il viso si macchiasse ed i capelli si imbiancassero.

Quello “alto”, invece – che si fa con gli occhi, nonostante siano più opachi e rimpiccioliti dal sipario delle palpebre che hanno progressivamente ceduto alla gravità – brilla ancora come un tempo, quando, divertito, obbediva alla mia richiesta di “farmi il cartone”, che voleva dire corrugare la fronte creando delle righe ondulate, perfettamente simmetriche e parallele, che mi ricordavano l’anima che avevo visto all’interno dei fogli di cartone.

Sembra aver spazzato via quella malinconia che velava il suo sguardo a inizio mattina, quando, intento a scadenzare l’orario delle medicine che avrebbe dovuto somministrarle nel corso della giornata, guardava con preoccupazione la donna che “nella buona e nella cattiva sorte, in salute e in malattia” gli è accanto da più di cinquant’anni e che, nonostante sia più giovane di lui, patisce peggio gli acciacchi ed il deterioramento del tempo che passa.

Com’è tipico dei bambini quando finiscono al centro dell’attenzione, anche lui (che, modesto e riservato com’è, in passato è sempre svicolato da festeggiamenti che lo coinvolgessero), a metà tra l’imbarazzo e la contentezza, posa ora - proprio come un bimbo - davanti al millefoglie su cui campeggia la scritta “Buon Compleanno”, sormontata da quattro numeri di cera.

Mio padre soffia sulla fiammella dei suoi 90 anni; accanto a lui, suo nipote (mio figlio) soffia su quella dei suoi 25.

È un’immagine di rara bellezza, la cerimonia più intima e delicata che possa tributarsi alla vita trascorsa se si ha ancora il privilegio di poter assistere al confronto tra due generazioni distanti, collocate agli estremi di un segmento di tempo durante il quale tante rivoluzioni sono accadute.

Mio padre ricorda ancora la fatica ed il sonno rubatogli da sveglie ad ore piccole, quando, ancora al buio, si affidava a quei mezzi di fortuna che potessero portarlo dal suo paesino a quello dove frequentava il liceo.

Ricorda il freddo, il suo unico paio di scarpe, i pasti striminziti e, più in là, i torrenti che doveva attraversare per raggiungere quelle minuscole e isolate scuole di campagna cui veniva assegnato nei suoi primi anni d’insegnamento.

Ricorda il suono delle sirene che annunciavano i bombardamenti e che arrivavano anche in quei posti dimenticati al centro d’una Calabria selvaggia dove sembrava che la guerra non potesse giungere se non sotto forma di pane razionato.

Ricorda l’acqua gelida del fiume in cui da ragazzo aveva imparato, da solo, a nuotare; la vipera che lo morse lasciandogli una profonda cicatrice nel punto in cui dovette incidersi – sempre da solo – per liberarsi del veleno; i Natale in cui con pudore faceva gli auguri ad un padre cui si rivolgeva con un rispettoso voi, ricevendone in cambio una carezza sulla testa ed una moneta; il primo stipendio guadagnato, la prima Fiat 600 acquistata di seconda mano, il paio di scarpe in più.

Ricorda il pane di miglio, i pasti poveri che oggi sono divenuti specialità raffinate, le trottole intagliate nel legno lanciate con lo spago, le partite di pallone giocate coi mocassini (quell’unico paio di scarpe!).

Ricorda il braciere in soggiorno, centro della famiglia e dell’universo intero, attorno a cui si riportavano storie, cronache e commenti; il suo impegno in politica, anni ed anni trascorsi nella piccola sezione della DC di cui era segretario, i comizi proclamati dai balconi affacciati sulla piazza del paese in tempo di campagna elettorale (quelli li ricordo anch’io) e le bobine Super 8 su cui registrava i propri e quelli degli avversari per farne poi argomento di dibattito con i compagni di partito.

Coincidono con i suoi anche i miei ricordi, da un certo momento in poi, come fossi l’anello di congiunzione che lega il suo tempo a quello dei miei figli, la terza generazione.

In quell’età di mezzo c’è stato l’avvento del computer che ha sostituito la vecchia Olivetti con la leva del ritorno a capo; la TV a colori col telecomando, che ha sostituito quella col tubo catodico ed il trasformatore cui mio padre aveva legato una lunga prolunga con un interruttore finale che gli consentiva di accenderla e spegnerla a distanza; internet e tutte le sue azioni online che gli hanno reso inizialmente difficile comprendere come fosse possibile pagare a distanza una bolletta della luce senza che ci fosse una fessura in cui inserire il contante.

Tuttavia non l’ho mai sentito rimpiangere il tempo passato, di cui, pure, parla con nostalgia; né entusiasmarsi per i tanti progressi attuali, che anche apprezza. Con la saggezza che è propria di chi comprende i vantaggi e i limiti di un’esistenza vissuta a cavallo tra due epoche, ha saputo cogliere il senso, le lezioni ed il valore di entrambe, adeguandosi ad ogni nuovo stato di cose con l’accondiscendenza e la serenità di chi, pur non comprendendo pienamente l’uso di tanti strumenti e le loro implicazioni, confida nella capacità delle nuove generazioni di metterli a frutto in maniera corretta, oculata e produttiva.

Oggi mio padre ascolta suo nipote che, con la stessa pazienza con cui un tempo lui spiegava a me le equivalenze o affumicava un vetro con la fiamma di una candela per farmi guardare un’eclissi, prova a fargli capire cosa sia il lavoro che fa, dal nome così strano – social media manager – che nemmeno sa ripetere.

Sorrido di tenerezza nel vederli così, testa contro testa, per mantenere contenuto il volume della voce che altrimenti mio figlio sarebbe costretto ad elevare per vincere la sordità ormai conclamata del nonno.

E imprimo nel cuore l’immagine di quel soffio congiunto sulle candeline, pensando a quando un giorno la ricorderò come il simbolo di quel tacito e fiero accordo con cui un uomo d’altri tempi, mite e saggio, ha saputo dignitosamente accogliere le varianti d’una generazione successiva imprevedibile, adattandosi con fiducia a tante rivoluzioni, anche quelle che non è riuscito a comprendere.

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