“In quella notte io passerò per il paese d'Egitto e colpirò ogni primogenito nel paese d'Egitto, uomo o bestia; così farò giustizia di tutti gli dei dell'Egitto. Io sono il Signore! Il sangue sulle vostre case sarà il segno che voi siete dentro: io vedrò il sangue e passerò oltre, non vi sarà per voi flagello di sterminio, quando io colpirò il paese d'Egitto. Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione, lo celebrerete come un rito perenne. Per sette giorni voi mangerete azzimi. Già dal primo giorno farete sparire il lievito dalle vostre case, perché chiunque mangerà del lievitato dal giorno primo al giorno settimo, quella persona sarà eliminata da Israele.” (Esodo, 12:12,15)
In queste parole della Bibbia si rinvengono le origini della Pasqua ebraica: “Pesach”, che deriva dal verbo ebraico “Pasoah” e vuol dire “passare oltre”. Il riferimento è al comando dato da Dio agli ebrei – dapprima esuli e poi divenuti schiavi in Egitto - di sacrificare un agnello e di tingere col suo sangue l’architrave delle loro case. È il rimedio con cui potranno scampare alla decima piaga d’Egitto, l’ultima e più terribile, che infine risolverà il faraone a liberarli e lasciarli partire verso la Terra Promessa. L’angelo della morte, passando durante la notte, colpirà tutti i primogeniti degli egiziani, ma “passerà oltre” le case contrassegnate col sangue dell’agnello.
Tutti quegli altri gesti –il mangiare pane azzimo per sette giorni, la pulizia meticolosa di ogni parte della casa per eliminare tracce di qualunque lievito (pratica da cui è nata l’espressione “fare le pulizie di Pasqua”) – sono tuttora parte dei riti della Pasqua ebraica, che dura sette giorni (quest’anno cadrà dal 22 al 28 aprile).
La prima sera di Pesach, le famiglie si riuniscono intorno a un tavolo apparecchiato in modo particolare e celebrano il Seder, una cerimonia durante la quale si legge il racconto dell’uscita degli ebrei dall’Egitto - la Haggadah – con l’aggiunta di parabole e commenti dei Maestri nonché di canti corali di inni. A simboleggiare quell’antica liberazione, è concesso di sedere a tavola senza osservare le strette regole dell’etichetta (ci si può puntellare sui gomiti, sedersi in maniera disinvolta, ecc.).
Libertà, dunque.
È questo il profondo senso della Pasqua: un “passare oltre” ogni forma di schiavitù, violenza e costrizione, siano o meno esse fisiche.
Ecco allora che, più che mai, in questa Pasqua quel significato rimbomba, stonato, nelle coscienze.
È un’altra Pasqua di guerra, la terza a Kiev e la prima in quei territori dove essa ha avuto inizio, per ebrei e cristiani.
È una Pasqua che non potrà spezzare le catene dell’odio e della sottomissione; che non simboleggerà ancora alcuna rinascita o redenzione. Nessuna pace.
Ma è perciò anche l’occasione per interrogarsi più profondamente su quali siano le condizioni necessarie affinché qualcosa cambi, affinché torni a rifiorire la speranza, affinché possano seminarsi e germogliare semi d’umanità idonei a schiarire un orizzonte ormai tanto cupo da non lasciar intravedere bagliori di luce e di pace.
Serve coraggio. Serve fare la prima mossa. Perché finché si resterà inermi ad attendere, continuando a guardare lo scempio di vite e la rovina di città da un divano ed attraverso la tv, non ci sarà alcuna Resurrezione.
Già anni fa il cardinale Carlo Maria Martini, in una sua riflessione sul doloroso e reiterato conflitto israelo-palestinese aveva affermato: «Qui tutti vogliono la pace, però nessuno vuole pagarne il prezzo. La pace ha un prezzo. La pace si paga, richiede compromessi, anche nel senso di lasciar cadere alcuni diritti rivendicati. Se si parte con la sola idea che bisogna conservare la totalità dei propri diritti, non sarà mai possibile arrivare alla pace».
Ed anche Papa Francesco ha fatto eco, di recente, a tale consapevolezza, affermando a sua volta – a proposito del conflitto russo-ucraino - che serve il coraggio di “alzare bandiera bianca", che non è un atto di resa, ma di forza, responsabilità e umanità.
La guerra, prima che sui campi di battaglia, inizia nei pensieri e nei sentimenti; e non si può parlare di vittoria se il prezzo è il terrore, la violenza, l’annientamento di altri popoli, lingue e culture. La guerra fa solo perdenti, da ogni parte.
Allora anche la rivoluzione – intesa come cambiamento reale e fruttuoso - deve partire dai pensieri e dai sentimenti, dal mutamento delle visioni, dal cambio di prospettiva per cui tutto ciò che si sta mettendo in atto appaia inutile e dannoso per l’intera umanità e non soltanto per i popoli in contesa.
Ecco allora la necessità che anche la partecipazione al dialogo di pace debba essere universale, affinché il seme della speranza e della rinascita germogli ovunque, in qualunque angolo della Terra in cui sia minata l’esistenza dei popoli e il rispetto delle loro origini e tradizioni.
La pace è responsabilità di tutti.
Questo, adesso, è il senso della Pasqua.