21 agosto 2024

Agli italiani piacciono le criptovalute

Il Rapporto Consob sugli investimenti delle famiglie italiane mostra un aumento dell’interesse verso le criptovalute, passati in due anni dall’8 al 18%, e gli investimenti sostenibili. Un giovane su due investe cercando indicazioni sui social

Autore: Germano Longo
È un fascino sottile quello che emanano le criptovalute, un sapore di libertà e tecnologia che sa di futuro e conquista spazi, a cominciare dalla possibilità di trasferire valori secondo il principio del “peer-to-peer”, da un soggetto ad un altro e senza alcun intermediario.

La percentuale di italiani che possiedono portafogli in criptovalute è più che raddoppiata nel giro di due anni appena: dal 2022 al 2024, passando da un timido 8% ad un più robusto 18%. Questo, almeno, è quanto risulta dalla fotografia sul settore scattata dal rapporto Consob sulle scelte di investimento delle famiglie italiane, realizzato su un campione di oltre 2mila investitori che ammettono di usare a piene mani i canali social per trovare suggerimenti e indicazioni sugli investimenti. In particolare per il 58% dei giovani fra 18 e 34 anni e il 42% delle donne, a cui si aggiungono coloro che hanno scarse conoscenze finanziarie e disponibilità limitate. Se il dato può sembrare un confortante segnale figlio dei tempi, dall’altro può trasformarsi in un pericolo, perché i social aumentano i rischi di cadere nelle mani sbagliate o di credere in investimenti errati.

Secondo quanto emerge dall’indagine Consob, i prodotti finanziari maggiormente presenti nei portafogli degli italiani sono certificati di deposito e buoni fruttiferi postali, seguiti da titoli di Stato, fondi comuni di investimento e obbligazioni, con una sostanziale curiosità verso le criptovalute e un incremento della percentuale di interesse al trading online, sulla spinta di fattori come l’opportunità di un guadagno immediato e la possibilità di diversificare il portafoglio.

A emergere in modo netto è anche la crescita degli investimenti “sostenibili”, scelti quest’anno dal 20% degli intervistati contro l’11% di due anni fa. Una propensione verso le sorti del pianeta anche in tema economico che si fa ancora più marcata tra gli investitori che ricorrono al lavoro di un professionista (55% dei casi), così come tra coloro che mostrano un’alta propensione alla ricerca di informazioni sulla finanza sostenibile (64%) e tra quanti già possiedono investimenti sostenibili (76%).

La tendenza degli investitori retail è in massima parte quella di affidarsi ad un intermediario di riferimento, scelto in base fattori come chiarezza (21%), attenzione ai bisogni (18%), affidabilità (19%), disponibilità a seguire il cliente nel post-vendita (16%) e competenza (18%). Nel 48% dei casi, il consulente viene assegnato direttamente dalla banca. In più, il ricorso alla consulenza cresce di pari passo con l’età, raggiungendo il 49% nella fascia tra 65 e i 75 anni. La quota scende al 48% tra i 55 e i 64 anni e cala al 32% tra i 18 e i 34 anni, con le donne più inclini a rivolgersi ad un consulente rispetto agli uomini (43% contro 39%).

La novità dello studio è che per la prima volta contiene anche una sezione dedicata alle fonti di informazione da cui le famiglie italiane attingono quando si tratta di investire i propri risparmi. In questo, la supremazia di internet è un dato di fatto per il 34% degli uomini e per i nuclei familiari che gestiscono somme inferiori ai 50.000 euro (41% rispetto al 33% di chi ha disponibilità più elevate) e per chi ha un basso livello di educazione finanziaria (55% contro 33%). Seguono la televisione (43%) e i social media (36%), a pari merito con siti o app specializzati nell’intermediazione finanziaria. Relegati a margine la carta stampata e le testate online, scelte da appena il 34% degli intervistati.

Per finire con una nota maschilista: chi decide su cosa e dove investire è quasi sempre il membro della famiglia che guadagna di più, responsabile anche della gestione delle finanze: nel 78% dei casi si tratta di un uomo dall’età media di 51 anni. “Si conferma il consolidato divario di genere che caratterizza il contesto italiano con riferimento non solo ad aspetti retributivi ma anche sociali e culturali”, conclude il documento della Consob.
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