30 luglio 2022
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Alle origini dell’Universo

Autore: Ester Annetta
Sembrano finte, immagini realizzate al computer con un sofisticato programma ad alta definizione che ha assemblato ritagli di altri fotogrammi ottenendo una composizione fitta di dettagli, punti di luce, colori; l’opera creativa di un genio visionario che ha azzardato di racchiudere l’Universo infinito in uno spazio finito.

Questo si può pensare davanti alla prima, straordinaria fotografia che qualche giorno fa quel capolavoro d’ingegneria chiamato Jwst (James Webb Space Telescope, il più grosso e complesso telescopio spaziale mai costruito) ha inviato sulla Terra da un punto dello Spazio infinito che nessun essere umano in carne e ossa potrà forse mai raggiungere.

Ci sono voluti 15 anni per realizzarlo, il lavoro di un team internazionale di centinaia di ingegneri, tecnici ed esperti reclutati da tre diverse Agenzie spaziali (l’americana NASA, l’italiana ESA e la canadese CSA), un costo di circa 11,75 miliardi di dollari e tempi d’attesa lunghissimi prima che tutto fosse messo a punto per il suo lancio, avvenuto alle 13.20 del 25 dicembre 2021.

Da allora l’apparecchio ha iniziato a galleggiare verso la sua destinazione operativa, il punto L2 di Lagrange, a 1,5 milioni di chilometri dalla Terra, dov’è arrivato circa un mese dopo, collocandosi su un’orbita allineata a quella terrestre. Ha dunque cominciato a dispiegare tutte le sue componenti – antenne, scudi termici protettivi, specchi riflettenti - “aprendosi come un fiore”, preparandosi così a ricevere il testimone da Hubble, il suo predecessore, mandato in orbita nell’aprile del 1990, e destinato ad iniziare l’avventura che avrebbe cambiato la visione dell’Universo.

Da quella “finestra” lassù, inimmaginabile per le comuni menti umane, Jwst ha cominciato a guardare più lontano di Hubble, a oltre 13 miliardi di anni luce da noi, per raccogliere dati e immagini che aiutino a capire e dare risposte ad uno dei più grandi misteri irrisolti dell’astrofisica moderna: come e quando si sono formate le galassie, le stelle e i pianeti e, dunque, ha avuto origine l’Universo intero.

13 miliardi di anni luce.

Significa guardare talmente lontano nello spazio da riuscire a vedere indietro nel tempo: “questo perché la luce viaggia molto velocemente ma non a velocità infinita, quindi i corpi celesti si vedono come erano al momento dell'emissione della luce piuttosto che come sono ora. Si possono quindi vedere le primissime cose che sono nate dal materiale del Big Bang”: così John Cromwell Mather - astrofisico e cosmologo statunitense, Premio Nobel nel 2006 per i suoi studi sulla radiazione cosmica di fondo con il satellite Cobe, che hanno rafforzato la teoria del Big Bang -, “madre” (come curiosamente suggerisce il suo cognome) di Jwst, ne aveva spiegato l’impiego alla vigilia del suo lancio, a dicembre scorso, cercando di usare il linguaggio più semplice possibile. “Non possiamo osservare direttamente come cambia una singola galassia, perché è un processo troppo lento; ma possiamo vedere come erano diverse le galassie, molto tempo fa, rispetto a come sono ora.”

Per quanto semplici Mather possa aver reso i termini, è pur sempre eccessivamente difficile da comprendere per la maggioranza della gente comune cosa voglia dire “guardare indietro nel tempo”, espressione suggestiva che schiude l’immaginazione verso quel “viaggiare nel tempo” che è un altro dei grandi sogni dell’uomo.

Il fascino è lo stesso, ma c’è in più quel senso di sgomento che ci è dato dalla percezione della nostra infima statura, del nostro essere infinitamente piccoli a confronto dell’infinitamente grande.

C’è da avere le vertigini, d’ubriacarsi di fronte alla grandezza di misteri che tuttavia ci accaniamo a studiare, osando sfide che sembrano andare oltre la potenza dei nostri mezzi, per sfamare il nostro appetito di conoscenza.

Ma non è pretenzioso.

L’uomo, nella sua finitezza, da sempre indaga su sé stesso, cercando di comprendere il senso del suo essere e delle sue origini. E l’asse della sua ricerca può naturalmente spostarsi, raggiungendo una diversa ampiezza, in cui oggetto dell’indagine si fa tutto ciò che lo circonda, dal finito all’infinito.

È un desiderio naturale, insomma, nonostante mantenga un’elevatissima carica di suggestione, che è peraltro ciò che ci rende ancora capaci di provare stupore e meraviglia nel sentirci parte di tanta immensità, di quell’Universo (che continuo a scrivere con l’iniziale maiuscola, col rispetto con cui si guarda ad una celeste genitrice) – che è il liquido amniotico in cui siamo immersi e da cui si genera la vita.

Manteniamolo quello stupore e, pur gloriandoci delle nostre conquiste, conserviamo l’umiltà ed il rispetto di figli, guardandoci dal pericolo che l’orgoglio del successo ci induca nella tentazione di violentare, abusare, manomettere ciò da cui siamo stati generati.
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