È un’immaginaria e suggestiva discesa nel più penoso dei regni danteschi “Inferno”, la mostra curata da Jean Clair ospitata alle Scuderie del Quirinale fino al prossimo 9 gennaio.
A tratti è una rappresentazione, una messa in scena; a tratti un vero proprio viaggio evocativo, compiuto attraverso un percorso di grande potenza simbolica, in cui, a partire dalla narrazione dantesca, si giunge alla trasposizione nella realtà dei giorni nostri e ad una reinterpretazione di tutto ciò che può significare dannazione, orrore, pena: inferno, insomma.
Proprio come nella prima Cantica della Divina Commedia, il viaggio ha inizio da una sorta di limbo, un antinferno in cui è collocata la simbologia dell’origine del male: la rivolta degli angeli e la loro caduta, rappresentata in modo magnifico, in particolare, da una minuziosa scultura in marmo alta poco più di un metro (attribuita a Francesco Bertos): una sorta di piramide di corpi intrecciati, contorti dalla loro dannazione, in cui spiccano, al vertice, la figura dell’arcangelo Michele con la sua spada sguainata e, in basso, in posizione perpendicolarmente opposta, Satana, di spalle, col suo tridente deposto nella destra, l’altro braccio teso, con l’indice della mano sinistra puntato verso il celeste guerriero.
Di fronte è collocato il calco in gesso, a grandezza naturale, della “Porta dell’Inferno” di Rodin, con al centro, sulla volta, il Pensatore e tutt’intorno le sculture di alcuni dei personaggi dell’Inferno dantesco.
Il simbolico passaggio oltre quella porta introduce nella “città dolente, ne l'etterno dolore, tra la perduta gente”, reali o immaginari: opere di artisti diversi, dal Medioevo al Rinascimento, offrono la visione dei vari modi in cui l’inferno è stato visto ed interpretato, dall’immagine simbolica di quella bocca che inghiotte le anime, al “Caron dimonio con occhi di bragia” che le traghetta attraverso l’Acheronte, al grande pentolone in cui bollono o al cono suddiviso in gironi che il nostro immaginario collettivo ha mutuato dalla descrizione dantesca. Il primo piano della mostra, nella sezione dedicata a Dante, raccoglie, oltre ad alcuni dei suoi ritratti più noti, passaggi tra i più incisivi della Commedia: le anime del girone dei lussuriosi con Paolo e Francesca rapiti dal turbine della loro passione, quelle dei traditori della Patria col Conte Ugolino che divora la testa dell’arcivescovo Ruggieri (il grande quadro di Dorè su tutti) sono immortalate in maestosi dipinti nei quali ci si sente immersi, al fianco del poeta, viandanti del suo stesso tragitto. Al piano superiore – dove la mostra prosegue - pitture altrettanto imponenti celebrano la potenza del male, con immagini di Satana - variamente interpretato - e delle sue manifestazioni in terra, sotto forma di tentazioni, come quelle che, con sembianze diverse, insidiano Sant’Antonio Abate.
Da questo punto in poi il balzo all’Inferno terreno è definitivo: il male si incarna negli orrori che hanno ferito l’umanità nel corso dei secoli e che è connaturato alla stessa sua storia, già a partire da quel primo atto disumano che è stato il fratricidio di Caino.
Le sue sembianze mutano, adeguandosi ai cambiamenti sociali. E, così, con l’avvento della società industriale, l’inferno diventa quello delle megalopoli sovraffollate, dove proliferano moderni ghetti, fatti di quartieri dormitorio e baracche; le stesse fabbriche tendono ad assomigliare a prigioni, luoghi d’alienazione dove gli uomini si trasformano in schiavi costretti a ritmi di lavoro insostenibili, nel grigiore di un paesaggio fitto di fumo e comignoli dove la bellezza e l’armonia muoiono, come mirabilmente simboleggiato nel dipinto di Georges Rochegrosse in cui un uomo piange per la morte della Porpora, simbolo della poesia, che giace inerme in terra mentre si consumano i suoi ultimi bagliori di luce.
E, ancora: le miniere, che anche nella loro morfologia assomigliano a gironi infernali; i manicomi, dove i malati diventano plotoni di emarginati; le guerre, con tutti i suoi orrori, dai volti deturpati dei soldati feriti (riprodotti da calchi) all’esodo cui sono costrette intere popolazioni.
Il culmine di quest’abisso di alienazione e violenza è simboleggiato dai campi di sterminio, dai cumuli di corpi scheletrici esamini (in una piccola teca ve ne sono due affiancati, due mucchi di materia rosa con punte d’azzurro che solo avvicinandosi si distingue essere corpi accatastati), da figure umane divenute l’ombra di se stesse.
E tuttavia, alla fine di tutto il percorso, giunge il messaggio di speranza, il ritorno alla luce: l’ultima sala raccoglie immagini straordinarie di firmamenti fitti di stelle, galassie, costellazioni, con simbolico richiamo a quell’ultimo verso della Commedia – “e quindi uscimmo a riveder le stelle” – che racchiude un codice salvifico, un passare oltre che si lascia alle spalle l’inferno e gli orrori visti, e che al tempo stesso sembra lanciare un monito: l’inferno è una realtà sempre possibile sulla Terra e, dunque, tutto ciò che è stato non va replicato ma nemmeno dimenticato.