“La vita non è trovare sé stessi. La vita è creare sé stessi”, diceva il grande scrittore irlandese George Bernard Shaw, ed è una frase con consiglio allegato che dal 2011 al 2023 hanno scelto di seguire ben 550mila giovani italiani, un esercito di zaini e valigie riempiti a volte a malincuore, ma spesso necessari per lasciarsi alle spalle il pacchetto di insicurezze garantite dall’Italia, uno dei pochi Paesi al mondo dove l’unica certezza è l’incertezza.
A raccontare la grande fuga degli italiani in erba è il rapporto “I giovani e la scelta di trasferirsi all’estero”, coordinato dalla “Fondazione Nord Est” e presentato nei giorni scorsi al CNEL. Il risultato è una finestra che si spalanca improvvisamente sull’universo silenzioso degli “expat”, coloro che si sono svegliati una mattina capendo di aver bisogno di aria nuova nei polmoni. I numeri, che mostrano un panorama desolato, non lasciano scampo: in 11 anni appena, più di mezzo milione di giovani fra 18 e 34 anni hanno scelto di andare via, e anche se contando chi ha preferito rientrare la cifra finale si attesta a 377mila, il dato resta comunque inquietante, specie se parametrato al capitale economico perso dal nostro Paese, pari a 134 miliardi di euro.
In pratica, per ogni giovane straniero che sceglie l’Italia partendo dai Paesi avanzati, otto italiani emigrano da altre parti, una sproporzione che apre le porte ad un altro fenomeno che andrebbe studiato a fondo: escludendo le vacanze estive, l’attrazione che esercita il nostro Paese sui nostri vicini europei si limita al 6%, a fronte del 34% della Svizzera e del 32% della Spagna.
“La scarsa attrattività dell’Italia per i giovani è una vera e propria emergenza nazionale, economica e sociale. Siamo entrati in una fase critica di carenza e fuga di giovani dal Paese. I giovani scarseggiano per le imprese, mancano nel sistema della PA e mancheranno sempre di più in ogni ganglio vitale della vita civile ed economica dell’Italia. Insensibilità e immobilismo sono scandalosamente inaccettabili”, ha commentato Renato Brunetta, presidente del Cnel.
E l’emorragia, prosegue il report, non accenna a calare: il 35% dei giovani che vivono nel Nord Italia si dice pronto a trasferirsi all’estero, verso Paesi che assicurino migliori opportunità lavorative (25%), o di studio e formazione (19,2%), o ancora alla ricerca di una qualità della vita più alta (17,1%), con un residuo 10% che ammette di voler partire alla ricerca di un salario più elevato. Difficile dargli torto: i giovani settentrionali che hanno scelto di varcare il confine italiano se la passano molto meglio dei loro coetanei rimasti in Italia: il 56% degli espatriati, sempre secondo il rapporto, si dichiara pienamente soddisfatto del livello di vita raggiunto, contro il misero 22% di quanti hanno preferito l’italica resilienza.
Ma ad essere cambiato negli expat è soprattutto il pensiero positivo: il 69% è convinto di aver gettato le basi per un futuro più sereno, mentre il 67% si aspetta una crescita esponenziale nelle opportunità di lavoro. Esattamente all’opposto, nuvole scure e cariche si addensano nei pensieri di chi ha preferito resistere ai richiami delle sirene estere: il 45% teme un futuro “incerto”, il 34% lo definisce addirittura “pauroso”, il 21% “povero” e il 17% si immagina “senza lavoro”.
Secondo Cinzia Conti, ricercatrice Istat intervenuta alla presentazione del rapporto, “I giovani tra 11 e 35 anni che risiedono all'estero sono 1,6 milioni. Una popolazione in aumento e in mutazione, perché un segmento rilevante sta acquisendo la cittadinanza dei Paesi dove sono emigrati”.
Certo, l’aria di casa a volte diventa una malinconia, ma tornare vorrebbe dire scontrarsi con la solita e durissima mancanza di analoghe opportunità di lavoro, seguita dall’idea che da queste parti – al di là delle promesse dei politici e dei ragionamenti dei salotti televisivi - lo spazio riservato ai giovani è pochissimo anche per via di un ambiente culturalmente poco aperto e privo sia di una visione internazionale almeno quanto di una qualità della vita che sia accettabile.
La meritocrazia, per dirne una, da queste parti diventa un concetto astratto che da sempre cede il passo alle conoscenze personali, che per quanto si dica valgono ancora più di un curriculum lungo quattro pagine.
Tanto è vero che i giovani, questa volta in modo compatto, bocciano senza possibilità di appello il mercato del lavoro italiano: anche quando si ha la fortuna sfacciata di riuscire a strappare uno straccio di contratto, “le prospettive future appaiono incerte, i tempi di crescita lenti e influenzati da una diffusa reticenza ad affidare responsabilità ai giovani. Inoltre, c'è scarsa attenzione alle esigenze dei collaboratori e i salari non sono sufficienti rispetto al costo della vita o coerenti con il lavoro svolto”, spiega nelle ultime righe il rapporto, lasciando l’amaro in bocca.
“Le partenze sono iniziate con la grande crisi e sono aumentate fino alla pandemia, che le ha ovviamente frenate, per poi ricominciare in modo massiccio fra il 2022 e il 2023, quando il tasso di disoccupazione giovanile è sceso, smentendo una facile spiegazione del fenomeno, ossia che nasca dal divario di disoccupazione - spiega Luca Paolazzi, direttore scientifico della Fondazione Nord Est - la scelta di tantissimi giovani dice che la qualità del lavoro è molto importante e misura i ritardi dell'Italia verso gli altri Paesi europei avanzati. Ma le risposte fornite dai giovani smentiscono anche un altro luogo comune: all’estero i giovani stanno male e prima o poi torneranno. È vero il contrario: chi è andato via sta benissimo e per convincerlo a rientrare ed evitare che altri lo seguano bisognerà lavorare duramente. Un terzo degli expat è intenzionato a rimanere fuori e la metà andrà dove ci saranno le migliori condizioni, mentre un terzo di chi è rimasto è pronto ad andarsene: significa altri 1,4 milioni di italiani in fuga”.