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Attualità d’un vecchio capolavoro

Autore: Ester Annetta
Cuckoo’s nest – il nido del cuculo - è il modo informale e sprezzante con cui gli americani chiamano i manicomi.

L’accostamento trova le sue ragioni in una ben nota caratteristica di quel volatile: un uccello “parassita da cova” che non costruisce nidi ma utilizza quelli di altri uccelli per deporre le proprie uova.

Tale premessa si rende necessaria per comprendere il significato del titolo di un film che, benché conti ormai circa mezzo secolo, per i temi che tratta risulta ancora di grande attualità, nonostante il contesto di riferimento invece no lo sia.

Nell’immaginario di chi conosce la pluripremiata pellicola del 1976 diretta da Miloš Forman, “Qualcuno volò sul nido del cuculo” è un’opera sacra, intoccabile. È una denuncia sociale contro guasti istituzionali che tuttora non lascia indifferenti e che, anzi, riacquista nuova forza mostrando di poter essere adattata ai tempi e alle situazioni attraverso riferimenti e metafore che mantengono inalterato il loro valore denotativo.

Ed è ciò che mirabilmente hanno fatto Maurizio Di Giovanni e Alessandro Gassmann - l’uno per l’adattamento, l’altro per la regia – trasponendo quell’opera su un palcoscenico e ricontestualizzando la vicenda, sia nel tempo che nel luogo, senza che la struttura e la potenza del racconto e del suo senso ne sia penalizzata.

Come nel film il "nido" è rappresentato dal manicomio, così in teatro esso diventa l’ospedale psichiatrico, verosimilmente quello di Aversa (come denuncia un breve affaccio su un esterno - proiettato sul fondo del palcoscenico - in cui si riconosce il profilo del Vesuvio in lontananza) ed i pazienti che vi si trovano ospitati sono le 'uova' che il cuculo – cioè la società, lo Stato – vi ha deposto per isolarli dal mondo.

Ma al di sopra di quel nido "qualcuno" osa volare, infrangendo le regole, ribellandosi all’appiattimento, all’obbedienza ed all’annientamento psicologico imposto ai suoi ospiti soggiogati e spaventati, per mostrar loro la via della libertà e della riaffermazione di sé.

Il ruolo del ribelle che vola sul nido – che nella pellicola fu di uno straordinario Jack Nicholson nei panni di Randle Patrick McMurphy, il galeotto che per sfuggire al carcere si finge folle – è qui di Dario Danise (interpretato da Daniele Russo), delinquente dal marcato accento napoletano che mantiene efficacemente la stessa forza, la stessa passione di McMurphy nell’ergersi a paladino di una battaglia contro un sistema repressivo dannoso e crudele.

Insieme agli altri “pazzarielli”, anche lui percorre un cammino interiore, lungo il quale si disvela il bisogno di ciascuno di essere ancora vivi, compresi, “grandi” – come dice Ramon, il gigante straniero che si finge sordo e muto per poter sopportare le angherie cui è sottoposto dagli inservienti dell’ospedale - infine liberi.

Del resto loro non sono segregati dietro le porte di quelle celle dove si trovano gli irrecuperabili, poste in alto, al di sopra della scena, da dove incombono drammatiche e inquietanti. Sono invece lasciati fuori, condividono spazi comuni e hanno relazioni tra loro perché “potrebbero guarire”. Se non fosse che la loro autonomia, la loro capacità di decisionale e di autogestirsi è costantemente e prontamente repressa, condizionata e minacciata da una severissima e disumana infermiera che non perde occasione per dar saggio della sua autorità e del suo potere.

Un velo trasparente si stende lungo tutto il palcoscenico, da destra a sinistra, dall’alto in basso, divenendo una simbolica quarta parete che fa da barriera tra la scena e il pubblico: un filtro, oltre il quale la “realtà recitata” si percepisce appena sfuocata, come se si volesse rimarcare la percezione non limpida che giunge all’esterno di luoghi come quello narrato.

In verità si tratta di un strumento scenico, uno schermo di cui di tanto in tanto vengono proiettate immagini che rimandano a qualcosa di immaginario (la visione o il sogno di un personaggio), o propongono una scena filmata che sostituisce quella che si sarebbe dovuta recitare dal vivo, sì che l’effetto sia quello dell’accaduto fuori dalla vista diretta dello spettatore, o – come nel finale – simboleggiano il compimento della trasformazione di un personaggio.

Il tempo della narrazione è a noi più prossimo rispetto a quello della pellicola, sebbene risulti disallineato (ma è una forzatura prevista ed accordata) rispetto ai fatti reali, dal momento che dal 1978, con la legge Basaglia, gli ospedali psichiatrici hanno cessato d’esistere. E’ difatti collocato nel 1982, l’anno dei mondiali di calcio, e quella che, nel film, era una partita di baseball, diventa inevitabilmente la finale Italia-Germania, la cui visione è interdetta dalla perfida suora ai “degenti”, che quindi – ancora una volta ricorrendo all’immaginazione – si adattano a “vedere” qualcosa che non c’è, sostenendo la partita col loro tifo, descrivendo ogni passaggio ed ogni azione, esultando per il goal della vittoria.

160 minuti di ottimo teatro; uno svolgimento portato avanti da attori straordinari che mai neanche per un attimo si distanziano dal personaggio, prestando efficacemente parole e corpi ad altrettanti caratteri, lasciando così che nell’alternarsi di momenti in cui si sorride ed in cui si è dilaniati dal dramma rappresentato, lo spettatore compia a sua volta un cammino di riflessione sulle diversità degli esseri umani, sulle loro fragilità, sulle loro paure, sugli schermi oltre i quali tendono a ripararsi.

Al di là dell’evidente denuncia civile nei confronti d’un sistema repressivo e disumano qual era quello dei manicomi, il testo teatrale rimane infatti d’attualità laddove venga letto oltre i suoi contenuti immediati per diventare la metafora più ampia del rapporto tra individuo e potere – anche quello precostituito o istituzionale –, dei meccanismi repressivi della società, della sopraffazione e del condizionamento di alcuni uomini da parte di altri suoi simili.

Perciò la denuncia di Ramon – che rivela d’esser “diventato piccolo” quando ha dovuto accettare di andare nei campi a raccogliere pomodori per poche lire, trattato come un animale da fatica, senza garanzie e senza tutele -, diventa quella che al giorno d’oggi riguarda i tanti migranti sfruttati da padroni e caporali, di quella merce umana sopraffatta dalla prepotenza e dal potere altrui, privata di identità e di dignità.

E, come nel film (dove lo straniero vilipeso e offeso era rappresentato da un capo indiano), sarà proprio Ramon l’unico a conquistare la libertà da vivo, colui che infine avrà volato davvero sul nido del cuculo, portando con sé pure l’onore di quei compagni – Dario e il giovane Fulvietto – che la stessa libertà l’avranno invece ottenuta soltanto in cambio della morte.

Qualcuno volò sul nido del cuculo
Di Maurizio de Giovanni da Ken Kesey
Regia di Alessandro Gassmann
Prossimamente in scena:
15/11/2022 - 27/11/2022 - Napoli, Teatro Bellini
29/11/2022 Narni, Teatro Comunale Manini
01/12/2022 - 04/12/2022 Ancona, Teatro delle Muse
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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