In uno degli ottimi reportage ai quali ci ha da qualche tempo abituato, Francesca Mannocchi, qualche sera fa, in una nota trasmissione televisiva, ha raccontato la condizione di una terra e di un popolo di cui sappiamo davvero ben poco. Lo ha fatto con la consueta maniera semplice e tagliente, lasciando che fossero le immagini a parlare e, soprattutto, i racconti degli intervistati.
Siamo abituati a chiamarli “bangladini”, appellativo che pretenderebbe di evocare la soavità di un diminutivo e che, invece, cela molto spesso un’intenzione discriminatoria; siamo altrettanto convinti che essi abbiano – qui da noi - una sorta di “monopolio” come commessi di negozi di frutta e verdura, quando non di “imbustatori di spesa” al supermercato.
Lavori umili ma onesti, in fondo, che tuttavia non impediscono di considerarli nella massa di quegli indesiderati da cui – secondo certe logiche politiche – ci si sente invasi.
Il servizio ha perciò voluto far luce sui motivi che spingono all’esodo anche la popolazione del Bangladesh, quell’oceano umano che solo nella capitale, Dacca, conta venti milioni di anime. Li ha dunque annoverati tra i “migranti climatici”, quelli che, a causa d’una emergenza davanti alla quale si continua a voltare lo sguardo dall’altra parte, stanno perdendo progressivamente anche la loro terra e le loro case, portate via da piene ed alluvioni sempre più voraci e intense. Necessitanti, perciò, di accoglienza e protezione, al pari di qualunque altro rifugiato, giacché è guerra, è distruzione ogni attentato con cui la Terra risponde ad altrettanti subiti per mano dell’uomo e della sua sconsideratezza.
Ma quella climatica non è la sola ragione per cui questa fetta d’umanità, povera e dimenticata, cerca rifugio altrove, scegliendo l’incognita di un viaggio di speranza che spesso ha come tappa intermedia un passaggio in Libia, dove non è certo che si sopravviva, così da poter affrontare anche l’ultimo tragitto, per mare, scommessa finale per la conquista della salvezza.
Non sono crocieristi né viaggiatori da diporto. Non scelgono di ‘viaggiare per vocazione’ ma solo per bisogno, perché morire nel tentativo di cercare di raggiungere altrove un porto franco da miseria e fame è più accettabile che arrendervisi nella propria terra, diventata inospitale più di quelle d’approdo che li etichettano come nemici ed usurpatori.
Di quella estrema condizione di povertà, anzi, la causa è molto spesso lo sfruttamento imposto da ricchi epuloni che hanno più convenienza ad affamarli a casa loro che a sfamarli accogliendoli in casa propria.
Ce lo ricorda un triste anniversario caduto proprio in questi giorni.
Esattamente il 24 aprile di dieci anni fa, a causa di un cedimento strutturale, crollava il palazzo del Rana Plaza di Savar, sub-distretto nella Grande Area di Dacca. Si trattava di un orrendo edificio squadrato di otto piani che ospitava alcune fabbriche di abbigliamento di marche europee ed americane, una banca, degli appartamenti e numerosi negozi.
Il giorno prima era stato evacuato poiché erano state notate alcune crepe che facevano mal presagire; ma i proprietari delle fabbriche tessili avevano preteso che i lavoratori tornassero all’opera. Perciò, quando alle 8.45 dell’indomani l’edificio collassò, in 1.134 morirono ed altri 2.515 feriti furono estratti vivi.
Solo allora, sotto la spinta della condanna planetaria, le coscienze di quei grandi sfruttatori (marchi del calibro di Auchan, Benetton, Carrefour, El Corte Inglés, Inditex (padre di Zara, Bershka, Pull and Bear, Oysho, Stradivarius), Mango, Primark per citare solo i più noti) si smossero, non senza lo sprone di una serie di proteste messe in atto da tutti i lavoratori.
L’evidenza era che fosse necessario non solo risarcire le famiglie delle vittime ma anche ricorrere alla formulazione e sottoscrizione - nei mesi immediatamente successivi - di un accordo sulla sicurezza delle fabbriche e delle costruzioni in Bangladesh, che poi effettivamente si tradusse nell’Accordo internazionale per la salute e la sicurezza nell’industria tessile e dell’abbigliamento.
Intenti, tuttavia, solo parzialmente trasformatisi in fatti, giacché pochi furono i familiari che ottennero il risarcimento (peraltro irrisorio, come del resto irrisori erano e sono tuttora i salari, arrivati, dopo la revisione disposta per l’ultimo quinquennio, a circa 75 dollari mensili) mentre tante furono invece le imprese proprietarie di grandi parchi che rifiutarono di sottoscrivere l’accordo sulla sicurezza, anche nel corso dei suoi successivi rinnovi.
L’Accordo di per sé funziona; ad oggi ha posto sotto monitoraggio indipendente e trasparente più di 1.600 fabbriche per un totale di circa 2 milioni di lavoratori; ha valore legalmente vincolante; attribuisce potere ai sindacati; prescrive un sistema di formazione dei lavoratori e prevede un meccanismo di reclamo attraverso cui le operaie possono segnalare eventuali problemi in maniera protetta.
Per contro, negli ultimi anni la libertà di associazione è stata sottoposta a forti pressioni, con conseguente limitazione della nascita di nuovi sindacati. I salari continuano a restare molto bassi e, come se non bastasse, a ottobre l’Accordo scadrà ed il rischio è che condizioni di lavoro non ancora propriamente ottimali ricadano negli abissi di vulnerabilità del passato.
Si aggiunga a ciò che i marchi ad oggi più reticenti non solo al rinnovo dell’Accordo ma anche alla sua sottoscrizione, sono tra i nomi più noti.
E’ importante che tutto questo si sappia, com’è pure necessario che le condizioni di quelle popolazioni e l’invivibilità dei loro villaggi e delle loro città ci siano noti, prima di interrogarci retoricamente sul perché tanto massiccia sia la loro fuga.
Ricordiamocelo, redarguendo chi impreca per ogni nuovo sbarco o resta indifferente di fronte all’ennesimo naufragio, ignorando che il bel paio di Levi’s che indossa o il divano Ikea da cui fa zapping, sorvolando su notizie di disperazione e povertà, sono fatte da migliaia di quelle mani che si tendono speranzose di trovare le nostre.