L’avvento dello smart working, considerato uno dei pochi lasciti positivi della pandemia, ha spalancato le porte ad una nuova generazione di lavoratori dipendenti, poco attratti dalla vita d’ufficio e al contrario molto più attenti alla possibilità di conciliare l’attività lavorativa e il tempo libero.
Ma un’analisi di “Live Data Technologies”, azienda californiana specializzata nelle analisi sui cambiamenti in atto nel cosiddetto “capitale umano”, ha individuato un’ombra scura non da poco che penalizzerebbe quanti preferiscono stare alla larga dal luogo di lavoro: le possibilità di carriera.
Secondo un campione analizzato negli Stati Uniti pari a 2 milioni di persone, negli ultimi due anni gli smart workers avrebbero messo insieme il 31% in meno di promozioni rispetto ai colleghi che ogni mattina accettano di presentarsi su posto di lavoro. Lo scorso anno, scendendo nel dettaglio, a fronte degli scatti di carriera messi insieme dal 5,6% di chi lavora in sede, soltanto il 3,9% di chi svolge la propria attività da remoto avrebbe raggiunto lo stesso risultato. Il dato, svelato da un’inchiesta del “Wall Street Journal”, si spiega con una mancata visione aziendale d’insieme di cui a pagarne le spese sarebbero soprattutto le donne.
La conferma, se mai fosse necessaria, è arrivata anche da un altro studio dello scorso anno, questa volta realizzato congiuntamente dal “Census Bureau” e dal “Bureau of Labor Statistics”, secondo cui il 90% degli amministratori delegati, quando si trovano nelle condizioni di dover promuovere o passare di grado qualcuno, istintivamente “dimentica” dell’esistenza dei dipendenti in smart working concentrandosi al contrario su quelli che vedono ogni giorno. Un cono d’ombra preoccupante in cui sembra scivolare chi ha scelto di rinunciare a vivere l’ufficio in presenza, da scontare attraverso una forma di “isolamento” dalla vita aziendale che si aggiunge alla mancanza di contatti di persona con i colleghi come l’immediatezza di feedback sul proprio lavoro e la possibilità di cogliere le opportunità del momento. Ma forse anche una forma di persecuzione velata che secondo alcuni esperti in materia di lavoro potrebbe configurare addirittura una discriminazione, con il rischio di class-action dai costi esorbitanti.
Non è un segreto, come dimostra un sondaggio di pochi mesi fa della “Kpmg”, che la maggior parte dei 1.325 AD di grandi aziende interpellati non vede più di buon occhio il lavoro da remoto, auspicando un ritorno in ufficio dei “desaparaceidos” entro i prossimi tre anni. Non ne fanno segreto nemmeno colossi che erano stati fra i primi ad adottare la soluzione da remoto, come “Google” e “Meta”, che pretendono sempre di più un ritorno al lavoro di presenza, nonostante la diminuzione di dipendenti porti a evidenti diverse voci di risparmio per le casse delle aziende e l’ambiente: è provato che due giorni a settimana di lavoro da remoto evitano l’emissione di 480 kg di CO2 all’anno.
Eppure, sono molti coloro che non riescono più a immaginare una vita lavorativa com’era normale prima della pandemia, scandita fra casa e ufficio, assicurando che lavorare da remoto permette di evitare distrazioni e perdite di tempo tipiche dell’ufficio aumentando per contro la capacità di concentrazione, dettaglio che si traduce in margini di errore molto più contenuti.
In effetti, l’Osservatorio Smart Working della “School of Management” del Politecnico di Milano registra una riduzione dei casi in cui il lavoro a distanza è ancora tollerato, sceso lo scorso anno a 3,585 milioni, ma ugualmente pari al 541% in più rispetto ai periodi pre-Covid. Tutto questo malgrado a metà dicembre con il DL Anticipi sia arrivata una nuova proroga dello smart working fino al prossimo mese di marzo per il settore privato, ancora concesso a lavoratori “fragili” e genitori con figli minori di 14 anni.
La soluzione, da più parti auspicata, potrebbe essere nella solita media: aumentare gli strumenti per rendere “visibili” i lavoratori da remoto, in particolare quando si tratta di donne.
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