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Coincidenze

Autore: Ester Annetta
Leonardo è un ragazzo di 23 anni, magro e minuto.

Non si sa molto altro di lui, se non che Il pomeriggio del 2 aprile scorso, a Foggia – dove vive - si trovava alla guida di un’auto. Senza patente.
In verità pare che non fosse nuovo a quella trasgressione, tant’è che l’auto che guidava si trovava sottoposta a fermo amministrativo proprio perché già una volta Leonardo era stato fermato ad un controllo di una pattuglia di carabinieri.

Perciò, quel pomeriggio, quando ad un posto di blocco la polizia gli ha intimato l’alt, temendo di peggiorare la sua situazione, il ragazzo ha deciso di non fermarsi e di tirar dritto fino a casa di sua madre, qualche chilometro più avanti.

La sua fuga si è però interrotta quando, vistosi inseguire dall’auto dei poliziotti, ha capito che non serviva a nulla scappare.

È dunque sceso dall’auto e si è buttato a terra, in segno di resa.

È stato allora che uno dei poliziotti sopraggiunti gli ha sferrato un calcio in faccia, imitato subito dopo da un secondo, sebbene altri colleghi - accorsi con un’altra volante – li esortassero a fermarsi.

Anche Leonardo, spaventato a morte, li ha implorati di smettere: “Scusate, scusate, non lo faccio più”; ma il poliziotto ha risposto: “Se continui a chiedere scusa ti ammazzo”, colpendolo ancora. E così ha fatto anche dopo, quando il ragazzo è stato portato in Questura.

La voce di Leonardo trema ancora ed è confusa mentre racconta; confessa di aver paura di restare a casa da solo da quel giorno, e anche di andare a firmare in caserma dopo la convalida del suo fermo.

La sua vicenda è divenuta nota grazie ad un video postato in rete da qualcuno che ha ripreso la scena dell’arresto con un telefonino, cui sono seguiti interventi televisivi e dichiarazioni dei parenti del ragazzo; sicché anche la questura di Foggia ha dovuto darne atto e dichiarare che è stata avviata un’azione disciplinare nei confronti dei poliziotti e un’informativa all’autorità giudiziaria.

Leggo questa storia e inevitabilmente il pensiero s’accosta a quello di un’altra di cui, per una di quelle strane coincidenze che forse tali non sono, proprio in questi giorni si è tornato a parlare, perché dopo circa tredici anni ha reso giustizia ad un’altra vittima dell’abuso di potere.

Al termine (almeno per una parte) di un lungo percorso giudiziario, la Corte di Cassazione ha infatti confermato la pena a dodici anni di reclusione per due dei carabinieri processati per la morte di Stefano Cucchi, riconoscendoli colpevoli di omicidio preterintenzionale.

Si, perché infine la verità è venuta a galla, nonostante le bugie, le negazioni e i depistaggi (per i quali altri otto carabinieri sono stati condannati con altra sentenza giunta proprio ora, mentre scrivo, a distanza di due giorni dalla prima): Stefano non è morto perché era caduto dalle scale (come sostennero i militari all’epoca del primo processo) e nemmeno perché era tossicodipendente o malnutrito. È morto perché è stato massacrato di botte la notte stessa in cui è stato arrestato e perché, in quell’ultima settimana di vita rimastagli dopo il disumano pestaggio che aveva annientato la sua volontà, la sola che invece si sarebbe dovuta contrastare – quella di non farsi curare – è stata rispettata.

Allora ecco che non è una coincidenza che queste due vicende si accavallino: è anzi significativo che si ripropongano in una sequenza in cui l’inizio dell’una coincide con la conclusione dall’altra che, a sua volta, ha avuto un principio simile alla prima.

E sembra perciò quasi un monito la sentenza del processo di Stefano, affinché l’anticipazione delle conseguenze di alcune condotte abbia un valore dissuasivo ma, prima ancora, correttivo di un sistema in cui troppo spesso il confine tra autorità e abuso scompare.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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