Rialzo dei prezzi dei prodotti alimentari e dell’energia, aumento dei tassi d’interesse dei prestiti, conseguenze dirette e indirette della pandemia prima e della guerra poi, stanno influenzando l’andamento non solo dell’Occidente, ma anche dei Paesi in via di sviluppo. E se per Eurozona e Stati Uniti la recessione è, a detta degli esperti, alle porte, con tutte le incertezze di questi mesi, per le zone a più basso reddito e le economie emergenti, già fragili, le previsioni si fanno forse peggiori. Le crisi di questi mesi hanno infatti esacerbato una condizione già precaria, aggiungendo alla lista dei fattori di blocco della crescita anche il rafforzamento del dollaro e una povertà che, dopo decenni di cali, sta tornando a salire.
L’allarme, previsto da qualche mese, è diventato lampante con le previsioni della Banca mondiale che ha ridotto quelle relative alla crescita delle economie in via di sviluppo, dal 4,6% indicato precedentemente al 3,4%.
In cima alla lista le criticità monetarie. Un dollaro forte indebolisce i Paesi emergenti indebitati nella valuta americana. Il medesimo meccanismo si innesca poi per chi deve importare beni che comunemente si vendono in dollari. Alimentari ed energetici, per citarne un paio. Lo stesso, se vogliamo affidarci alla ciclicità della storia, era capitato durante la crisi messicana del 1994 e con il default russo del 1998. Ed è quanto capitato allo Sri Lanka: eccessivo indebitamento, inflazione e cattiva gestione dell’economia hanno portato a maggio a dichiarare un default con debito di oltre 78 milioni di dollari verso gli investitori internazionali.
Una crisi diventata poi anche politica, e che fa da monito a tutti gli altri Paesi che versano nelle stesse condizioni: un’esposizione al caro prezzi sempre più rischiosa, soprattutto per i prodotti alimentari, come è accaduto in Zambia o Libano. Paesi, entrambi, alla ricerca di aiuti internazionali per solvere i propri debiti, o quantomeno ristrutturarli. O ancora lo stesso caso del Pakistan, con un governo che si dichiara vicino all’insolvenza dopo una crisi causata, non a caso, dal caro carburante. A concedere i primi prestiti è stata la Cina, con un’Occidente già sufficientemente impegnato a riparare le perdite delle proprie tubature finanziarie, con un versamento di 2,3 miliardi di dollari per rafforzare le riserve pakistane di valuta straniera. Anche nel Laos l’inflazione è salita alle stelle, con un 24% che ha ridotto drasticamente la possibilità di importare benzina e altri prodotti di prima necessità. Il Paese asiatico, secondo la Banca mondiale, alla fine del 2021 aveva nelle proprie casse appena 1,3 miliardi di dollari, sufficienti per coprire appena due mesi di importazioni.
Per il 2022 il Fondo Monetario internazionale ha stimato un rialzo dei prezzi nei Paesi in via di sviluppo pari all’8,7%, con una mediana ad aprile del 12%, mentre nei due anni precedenti alla pandemia era ferma al 4%.
Anche la crescita economica è in forte rallentamento. Si prevede una riduzione per 7 economie emergenti su 10, e per 8 su 10 per quelle a basso reddito, in particolare per quei Paesi – Repubblica Democratica del Congo, Rwanda e Uganda – che dipendono pesantemente dall’import di grano da Russia e Ucraina.
Paesi dunque lontani dalle dinamiche monetarie occidentali, ma che risentono del rialzo dei tassi in USA e dei conflitti per i risvolti energetici e alimentari. Il nodo della questione sta in un possibile fenomeno di reshoring, ossia di un rientro a casa delle aziende che in precedenza avevano delocalizzato: per i Paesi in via di sviluppo significherebbe dover ritrovare un motore di crescita alternativo a quello che aveva messo in moto il processo negli ultimi 20 anni.