Se torno con la mente a due anni fa, all’inizio dell’emergenza pandemica, è alla parola “paura” che penso come termine connotante di quel periodo.
Si viveva in una condizione di allerta continua, vigili, attenti, scrupolosamente rispettosi d’ogni cautela (con eccessi ossessivi, talvolta) ritenuta necessaria ad impedire l’aggressione di quell’infimo e subdolo nemico che ci accerchiava.
Si attendeva quotidianamente il bollettino dei nuovi positivi e delle vittime, quasi fosse il tragico resoconto d’un diario di guerra, e si restava in silenzio, senza l’azzardo di alcuna critica d’inefficienza né accenno di polemica di fronte all’incubo d’una minaccia che si faticava a fronteggiare, pendendo dalle labbra di esperti non ancora diventati star e prestando voce solo a preghiere per quanti continuavano a morire o ad implorazioni affinché un rimedio si trovasse prima possibile.
Confronto quell’allora con l’adesso - senza considerare le sfumature intermedie che hanno lentamente modificato tanto la consapevolezza che la percezione della realtà - e ciò che vedo, se per alcuni versi sembra rassicurante, per altri rivela nuovi aspetti preoccupanti.
C’è un vaccino, innanzitutto, che, per quanto non sia totalmente neutralizzante, riduce sensibilmente gli effetti del virus, contenendone la malattia tanto da relegarla, spesso, in una sfera di asintomaticità che ne consente un decorso inavvertito.
Per contro, c’è una schiera ben nutrita di contestatori e negazionisti che, remando contro la prudenza suggerita dall’adozione diffusa del solo strumento che, allo stato, è in grado di offrire sufficiente protezione, antepongono la tutela d’una presunta libertà violata a quella della salute collettiva, guidati da un invasamento ideologico che restituisce loro la visione falsata d’una gestione dittatoriale e repressiva dell’emergenza.
Non è escluso che fossero anche loro tra gli ammutoliti spettatori del dramma di morte ed impotenza che, due anni fa, ha sconvolto ogni esistenza e che le loro preghiere si siano allora unite alle tante con cui si invocava che un rimedio fosse presto approntato, al di là d’ogni logica di tempo e di verifica.
Ma poi l’hanno dimenticato, preferendo assumere l’ibrida posizione di coloro che, in quanto oppositori, si trasformano di necessità in vittime.
Sostenendo che la loro non sia un’offensiva ma una difesa - la voce inascoltata di profeti di sventura depositari della verità - non si ritengono aggressori del sistema ma perseguitati, confinati all’interno di un cerchio che, tra obblighi vaccinali e di green pass, si sta stringendo sempre di più per soffocarne la legittima protesta.
Tutto ciò è, però, argomento di riflessione quotidiana, evidenza che appare agli occhi di tutti: sostenitori dell’utilità vaccinale, scettici, militanti della frangia estremista no-vax.
Un altro aspetto – in apparenza meno scontato - su cui invece conviene indugiare con l’analisi, riguarda il comportamento che noi tutti (al netto degli estremisti) abbiamo assunto nei confronti del virus e della sua minaccia.
La parola che più sembra adeguata a descrivere questa nuova fase pare essere “adattamento”.
Già da tempo i più hanno dismesso le psicosi più evidenti (lavaggi innumerevoli delle mani, uso di salvascarpe, disinfezione accurata di ogni prodotto acquistato al supermercato, sanificazione esasperata di luoghi, spazi, indumenti, utilizzo smodato di sistemi di protezione), concedendosi anche di riutilizzare reiteratamente la stessa mascherina senza conteggiare le canoniche quattro ore oltre cui dovrebbero sostituirsi.
Ma è la condotta generale adottata nelle situazioni prima considerate a rischio la guardia più evidente del passaggio dalla “supremazia” del virus alla “convivenza” con esso. E l’avvento della variante Omicron è stato, in questo senso, una sorta di acceleratore, “grazie” alla sua maggiore diffusività.
Se non ne siamo stati noi stessi contagiati è certo che, in questo momento, ognuno di noi ha all’attivo più di un parente, amico, conoscente positivo o malato di Covid, a differenza di quanto non fosse durante la prima ondata di contagi. Pare, anzi, essersi diffusa la convinzione che “tanto ormai non si scappa” e che, prima o poi, il marchio del virus si imprimerà su tutti. Parimenti, sembra essere altrettanto diminuito il timore delle sue possibili conseguenze, per via dell’ ”effetto salvagente” di cui i devoti del vaccino ritengono potersi fidare, tanto più se si è già ricevuta la terza dose.
Insomma, lo strano paradosso cui pare assistersi è quello d’un panorama in cui, nonostante la presenza d’una variante molto più contagiosa di tutte le altre (ancorché meno letale) sembra che la direzione verso cui si sta andando sia quella di un ritorno alla normalità - o, meglio, ad una “diversa normalità” - che segna la fine di quell’estremo condizionamento sociale in cui si è finora tradotta la pandemia.
Non ci saranno più chiusure totali - questo ormai pare abbastanza certo - né arcobaleni di colori a contraddistinguere le diverse regioni, parendo più probabile che solo poche ricominceranno a tingersi di quelli più accesi.
In tutti i Paesi e in tutti gli ambiti (la scuola, per esempio) sono rimasti in pochi – tra gli esperti e i politici – coloro che tuttora ritengono necessarie misure rigorose per il contenimento del virus: non c’è più una marcata volontà di chiusure o di interventi d’ampia portata. E qualcuno, anzi, l’ha pure espressamente dichiarato: basta restrizioni, bisogna convivere con il Covid! (cit. ministro della salute britannico).
Contemporaneamente si accelera sulle vaccinazioni e – come dimostrano in queste ultime settimane le lunghe file davanti alle farmacie – sul ricorso ai tamponi, come a voler dimostrare che la strategia che si sta scegliendo di adottare è forse più quella di far fronte al contagio (conoscendone i numeri) che impedire che si diffonda (essendo questo, evidentemente, inevitabile). Ciò al fine di riuscire a gestire meglio l’evoluzione della malattia, contenendo i ricoveri ed impedendo il collasso delle terapie intensive.
Il risultato – sotto gli occhi di tutti – è una resistenza strenua nel voler difendere quanto è stato nel frattempo riconquistato: uno spettacolo a teatro, un film al cinema, una cena tra amici a casa o in un ristorante, lo sport, i viaggi o, anche, più semplicemente, la spontaneità d’una stretta di mani o d’un abbraccio.
La pandemia non è ancora finita - lo sappiamo bene - né è tuttora prevedibile quando finirà. Ma pare invece essere finita quella costrizione sociale che essa aveva imposto, oppure (ma è lo stesso) sembra essere aumentata la volontà di non farsene sopraffare e di “giungervi a compromesso”.
Quanto questo sia un atteggiamento saggio – al di là del bisogno che ciascuno di noi avverte di riprendere pienamente la propria vita – è discutibile.
E’ vero che ci sono paesi, quelli poverissimi, che da sempre convivono con agenti patogeni, ma ciò non vuol dire che tutti gli altri siano capaci di fare altrettanto: questa è forse la sola condizione che le società più evolute potrebbero oggi invidiare a quelle sottosviluppate!
Allo stesso modo, ci sono popolazioni che da decenni vivono in territori devastati dalla guerra, riuscendo comunque a condurre un’esistenza che, per quanto invivibile possa essere giudicata da un qualunque spettatore esterno, per essi costituisce la normalità.
Allora, lasciando da parte ogni considerazione sulla pericolosità o meno di un tale mutato atteggiamento nei confronti della pandemia, è forse proprio su questa volontà di ignorarla che bisognerebbe riflettere: il bisogno di riprendere a vivere nella socialità è – in questo frangente – sicuramente un impulso sconsiderato e incosciente; tuttavia è umano, perché è tale, per istinto, la nostra determinazione ad andare avanti, sempre e comunque.
E’ stata difatti questa determinazione a consentirci, due anni fa, di vivere una cattività che mai volontariamente ci saremmo imposti, in nome d’un obiettivo d’utilità comune che imponeva altrettanto sacrificio.
Ed è questa stessa determinazione a spingerci, oggi, a riappropriarci di ciò che eravamo prima d’allora.
Resta solo da augurarsi che ciò avvenga con giudizio.