“Quanto freddo fa?”
È l’interrogativo che istintivamente balza in mente al pensiero di quell’isola lontana e solitaria, tuffata nelle gelide acque dell’Atlantico e dei mari del Nord.
Del resto, il significato stesso del suo nome – Iceland, “terra ghiacciata” – evoca istantaneamente l’idea di temperature estreme, di montagne ammantate di neve e di panorami cristallizzati nel ghiaccio.
Ma è altrettanto vero quel che si dice: bisogna vederla da vicino, immergersi nei suoi immensi paesaggi e lasciar correre la vista tutt’intorno, fin dove arriva, per cogliere la bellezza e l’immenso fascino di questa giovane terra.
20milioni di anni appena, contro i 4 miliardi della crosta terrestre: l’Islanda è nata “ieri” ed ha tutto il vigore e l’acerba bellezza di una fanciulla indomita e ribelle.
È spuntata dal nulla, come Venere dalle onde, quando il fondale marino, una volta alleggeritosi dal peso dei ghiacci che l’opprimevano, si è sollevato. E lo ha fatto in un punto ben preciso, che le vale un primato unico ed eccezionale: è emersa lungo la linea della faglia che separa le placche tettoniche Euroasiatica e Nordamericana. E proprio in uno dei parchi islandesi più belli, il parco nazionale del Thingvellir (dichiarato patrimonio Unesco e tra l’altro luogo in cui nel 930 d.C. si riunì l’Alþingi, il primo Parlamento dell’isola e, forse, del mondo), quella spaccatura - la faglia di Silfra - è visibile e percorribile, sì da avere la sensazione di abbracciare con un unico sguardo e di poggiare i passi contemporaneamente sull’Europa e sull’America.
Ghiaccio e fuoco sono le note dominanti: un contrasto potente di elementi che rendono quest’isola inquieta, proprio come un’adolescente, preda di sbalzi d’umore altalenanti tra calma piatta ed improvvisa euforia.
Il fuoco scorre sotto il ghiaccio, sbucando all’improvviso da crateri vulcanici o aprendosi il passaggio attraverso lunghe fratture incise nel terreno. Un rischio calcolato e in parte prevedibile, con cui la popolazione locale ha imparato a convivere, pronta a correre ai ripari ogni volta che la minaccia di un’eruzione si fa più concreta, com’era accaduto nel 2010, quando coltri di cenere hanno offuscato per mesi cielo e suolo, e com’è successo ancora poche settimane fa, quando la cittadina di Grindavik è stata evacuata dei suoi 4mila abitanti.
Eppure nulla più di questo conflitto ancora così attivo tra forze della natura è in grado di restituire la sensazione di una vicinanza ai primordi della Terra, a ciò che miliardi di anni fa devono essere state le sue origini, quando tutti gli elementi si scontravano tra loro per affermare il proprio spazio e il proprio dominio, fino a raggiungere quell’equilibrio che avrebbe infine consentito di accogliere le prime forme di vita.
E poi i colori.
L’inverno al Nord del mondo è una lunga notte. L’albo compare quand’è mattino inoltrato ed in un arco di ore brevissimo è già il tramonto. La sensazione è dunque quella di un lungo crepuscolo; di un levare che sfuma in un calare senza soluzione di continuità; di un tempo in cui non esiste il “giorno fatto” né il mezzodì, ma una pausa di chiarore nel mentre il buio si distrae.
Non ci sono tinte decise, ma morbidi e delicati colori pastello che riflettono di rosa e d’azzurro le cime innevate, incendiandole infine d’oro e diamanti un attimo prima che l’oscurità avanzi, come se, con quegli ultimi bagliori, implorassero ancora un po’ di tempo alla notte.
In quegli istanti tutto è pace. Il silenzio degli spazi interminati intorno si fa ancora più pesante; ma non opprime, anzi apre lo sguardo e l’anima a quella vastità, come a volerla catturare e custodire prima che il nero ingoi ogni forma, ogni contorno, ogni colore.
Di lì a qualche ora ancora, quando è all’incirca mezzanotte, è tempo di un altro miracolo ancestrale. L’Aurora o, come si dice nell’emisfero boreale, la Northern lights.
La signora della notte.
È stata la sua ricerca a indurre la scelta di questo viaggio. Un desiderio di gran lunga più forte dell’interrogativo iniziale “quanto freddo fa?” e un potente traino per vincere ogni timore, anche quello della minaccia del risveglio del fuoco sopito dal ghiaccio.
L’aspettativa maggiore, la delusione peggiore.
L’Aurora non è affatto prevedibile né scontata, è risaputo. Quel che invece è meno noto è che le sue tinte non sono sempre ed esattamente quelle delle immagini più diffuse. Occorre una combinazione perfetta di intensità di vento solare e di magnetismo terrestre, oltre ad un cielo perfettamente limpido, per consentire di catturarne le colorazioni verde e fucsia che la caratterizzano.
In assenza di queste condizioni, ciò che l’occhio umano vede è soltanto la danza di scie bianche o grigie, che unicamente attraverso il filtro di un obiettivo fotografico recuperano i colori sperati.
Ci sono volute due fredde notti col naso all’insù e le dita gelate poggiate sul pulsante di scatto per accettare la resa a quanto non si sarebbe visto. Almeno non con gli occhi.
Ed è parso una beffa che spettasse ad un freddo occhio meccanico di cogliere, inconsapevolmente, la bellezza di uno spettacolo il cui effetto avrebbe dovuto passare attraverso un filtro emozionale anziché fotografico.
Allora si è fatta strada la promessa di un ritorno. In un altro tempo, in un’altra stagione, con altri colori e con altra luce. Anche senza Aurora.
Perché, in fondo, alle emozioni basta il sentire, il vedere al di là del solo guardare, il ricevere.
E l’Islanda sa parlare, sa descrivere, sa dare.
È una fiaba di Troll e fate incastonata in un paesaggio misterioso e seducente; un racconto di bellezza acerba ed imperfetta che si tramuta in magia tra i ciottoli delle spiagge nere, i diamanti dei ghiacciai, lo scroscio di cascate tanto potente da impedire il sopravvento del gelo; un sottovuoto di sorprese e meraviglie che si espande a contatto con l’anima.
Passione e incanto. Fuoco e ghiaccio.
Un luogo in Terra. Uno stato di grazia. Un disgelo dal freddo e dall’indifferenza che incide nel cuore profondi squarci di bellezza e di memoria.