La portata non è stata certo quella delle ben più famose quattro giornate, quando la popolazione insorse per liberare Napoli dall'occupazione delle forze tedesche; tuttavia il clamore è stato sufficientemente forte da indurre il sindaco del capoluogo partenopeo a rivedere le sue posizioni.
Sotto accusa era finito il nuovo testo del regolamento sulla sicurezza urbana (che, all’insorgere delle polemiche, il primo cittadino si è affrettato a dichiarare trattarsi solo di una bozza) che, in alcuni passaggi, conteneva dei divieti apparsi in netta antitesi con quei caratteristici tratti di “napoletanità” che costituiscono i segni distintivi sia della città che dell’identità stessa della sua popolazione. Vietato "stendere o appendere biancheria, panni, indumenti e simili al di fuori dei luoghi privati, nonché alle finestre, sui terrazzi e balconi prospicienti la pubblica via quando ciò provochi gocciolamento sull'area pubblica". E, ancora, vietate le partite di pallone per strada e scuotere le tovaglie dalle finestre.
Un vero e proprio attentato, insomma, a quel folklore che, anche grazie ai filari di panni stesi da un palazzo all’altro negli stretti vicoli dei quartieri spagnoli ed alle orde di scugnizzi schiamazzanti lanciati dietro a un pallone, ha reso Napoli unica agi occhi del mondo.
Il tutto in nome del “decoro urbano”, espressione che, nella sua definizione canonica, dovrebbe identificare la bellezza e la dignità dello spazio cittadino e dunque il connubio tra estetica e qualità sociale delle città, cui dovrebbe corrispondere anche la responsabilità civile del cittadino nei confronti della collettività.
Parole. Belle, ma vuote di contenuto all’atto pratico, soprattutto quando vengono volutamente alterate e, perciò, brandite come un’arma per giustificare operazioni di pulizia che non riguardano propriamente rifiuti. Quello dei divieti appena narrati ne è un esempio, ma lo stesso dicasi per tutti gli sgomberi che vengono ciclicamente ordinati per ripulire strade, portici o stazioni da poveri disperati senza fissa dimora o per smantellare campi rom che di lì a poco ricompariranno.
Come se tutto questo davvero bastasse a rendere più decorose le città, in luogo dell’adozione di soluzioni più ragionate, significative, efficaci e definitive; come se impedire ai panni di sgocciolare o ai bambini di giocare per strada fossero interventi di risanamento, laddove ne occorrerebbero altri e più urgenti, quali il riempimento delle buche sull’asfalto, che in molte vie cittadine provocano veri e propri attentati (loro si!) all’incolumità, o la pulizia delle strade e lo smaltimento dei rifiuti, dacché i cumuli d’immondizia diventano essi stessi immondi “decori” di quartieri nemmeno troppo defilati e saturano l’aria con i loro mefitici effluvi.
E non basta, perché spesso all’inefficienza si aggiunge anche la dabbenaggine, non potendosi altrimenti definire la pretesa di condurre sondaggi che, al di là degli scopi, dimostrano un deficit abissale degli enti preposti alla cura ed alla tutela dei cittadini circa la conoscenza dei principi basilari di rispetto e inclusione, ciò su cui, nel concreto, si fondano le basi dell’appartenenza ad una comunità.
Il riferimento è al balordo questionario che l’amministrazione comunale di un paese del litorale laziale ha avuto l’ardire di sottoporre alle famiglie con figli disabili gravissimi: in una scala da uno a quattro, quanto ti vergogni del tuo familiare con disabilità? Quanto risentimento provi nei suoi confronti? Quanto non ti senti a tuo agio quando hai amici a casa?
Anche in questo caso il fine aveva la pretesa di giustificare il mezzo: secondo le intenzioni del comune il questionario - inviato alle famiglie interessate ad aggiornare la documentazione sulle istanze di contributo per la disabilità gravissima - sarebbe stato una modalità di autovalutazione sulla percezione soggettiva dello stress. Uno “strumento scientifico” che, con riferimento a cinque differenti aspetti della condizione di caregiver familiare (carico oggettivo, psicologico, fisico, sociale ed emotivo) avrebbe avuto l’obiettivo di “individuare idonee misure di sostegno per le famiglie interessate”.
Torna anche qui l’idea di decoro, inteso stavolta in un’accezione più soggettiva, come correttezza, tatto, prudenza, senso civico. In una parola: etica.
Cambierà pure il senso, ma la valutazione non muta. Pure stavolta il decoro resta solo una “condizione di facciata”, un intervento che conferisce soltanto una parvenza di decenza ad un sostanziale disfacimento, agendo temporaneamente sulla forma e non sul contenuto, sull’aspetto e non sulla necessaria e sana progettualità.
Di fronte alla disabilità non servono termometri che quantifichino il disagio, ma interventi concreti che possano ridurlo al minimo.