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rave party

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Di necessità e urgenza

Autore: Ester Annetta
In una grande palestra del distretto di Yongsan, a Seul, sono stati allineati e numerati centinaia di oggetti: scarpe, borse, capi d’abbigliamento, occhiali, telefoni.

Appartenevano a quanti – tra vittime e sopravvissuti – si trovavano nella calca del vicolo di Itaewon, tragico teatro della strage di Halloween di sabato scorso in Corea del Sud, dove hanno trovato la morte 156 persone.

Anche le vittime sono state deposte nello stesso luogo; gli uni e le altre in attesa che proprietari o familiari possano recuperarli o riconoscerli.

Itaewon è il quartiere della movida della capitale coreana; quel giorno maledetto vi si erano spontaneamente riuniti, come sempre, molti giovani. Troppi.

L’idea era quella di trascorrere in allegria una serata di festa, nella zona più modaiola della città, tra musica e luci. Null’altro lasciava presagire il pericolo prima che la calca andasse via via aumentando, stipandosi in quegli stretti vicoli che non consentivano vie di fuga.

Più o meno nelle stesse ore a Modena aveva luogo un altro raduno, stavolta indicato con un ben precisa connotazione: un rave-party.

Con tale espressione si indicano - secondo la comune definizione nata sul finire degli anni ottanta - manifestazioni autogestite, dall'accesso completamente libero e gratuito, caratterizzate dal ritmo incalzante della musica (principalmente tekno), che si tengono in spazi isolati - perlopiù aree industriali abbandonate o grandi spazi aperti - e che possono avere anche la durata di giorni.

Sostanzialmente delle feste, insomma, che però molto spesso prendono una deriva trasgressiva all’insegna di alcool e sostanze stupefacenti.
Quella di Modena, organizzata in un capannone abbandonato, aveva anche un nome, “Witchtek 2K22”, ed era riuscita a radunare circa 3.500 persone provenienti non solo da tutta Italia, ma anche da altri Paesi europei.

Nemmeno stavolta c’erano concreti elementi che potessero far presagire un pericolo concreto, nemmeno la calca, vista l’ampiezza dello spazio utilizzato.

Tuttavia, a differenza che a Seul, si è scelto di adottare una linea dura e, dunque, non solo è stato ordinato lo sgombero dei partecipanti al rave – svoltosi fortunatamente in maniera pacifica e senza l’uso della forza –, ma in men che non si dica e in sua coincidenza è stato persino varato un decreto legge che, sul presupposto della sussistenza di una condizione “straordinaria di necessità e urgenza”, come richiesto dal dettato costituzionale, è andato ben oltre.

Il D.L. 31 ottobre 2022, n. 162, difatti, ha infilato tra le misure riguardanti l’ergastolo ostativo, il rinvio dell’attuazione della riforma della giustizia penale e l’eliminazione di obblighi correlati all’emergenza pandemica, anche quella che, nel definire preliminarmente in cosa consiste “l’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica” ha introdotto una nuova fattispecie di reato che andrà a rubricare l’art. 434 bis del codice penale. Secondo tale novella normativa, “l’invasione” di che trattasi, ove sia “commessa da un numero di persone superiore a cinquanta”, è punita con la reclusione (oltre che con una multa) tanto per l’organizzatore che per chi vi prende parte (salvo, in tal caso, una diminuzione della pena) qualora dal raduno così organizzato “può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”.

Le polemiche non hanno tardato a giungere già all’indomani della pubblicazione del decreto in Gazzetta Ufficiale che, tra l’altro, con riguardo a tale specifica norma, ne ha disposto l’immediata entrata in vigore senza nemmeno uno scampolo di vacatio legis che potesse ottemperare all’esigenza di conoscibilità della stessa.

In primis è sorta la questione sull’ambito di applicazione della nuova fattispecie di reato, stante l’ampiezza e la genericità del concetto stesso di ‘raduno’, che tenderebbe “potenzialmente” a comprendere non solo i rave in senso stretto ma qualcunque altra manifestazione promossa da più di 50 persone, occupazioni studentesche comprese.

In secondo luogo, la rilevata “potenzialità” è apparso un elemento decisamente ricorrente che, per una norma di tale portata - vista la gravità delle sanzioni previste - rischia di tradursi in contrarietà ai principi costituzionali.

C’è, difatti, una norma della nostra Costituzione (art. 17) che riconosce a tutti i cittadini il diritto a riunirsi pacificamente e senza armi, e senza alcuna necessità di autorizzazione quando ciò avvenga in luogo aperto al pubblico; in tal caso deve soltanto essere dato preavviso alle autorità, che non possono comunque vietarle se non per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.

C’è già tutto, compreso il dettaglio non irrilevante che i motivi per cui ‘le riunioni’ (termine parimenti ampio ma meno prepotente di ‘raduno’) possono essere vietate debbano essere dimostrati.

Tale requisito non compare nella nuova norma che, viceversa, processa addirittura le intenzioni fondandosi su una presupposta pericolosità, su un potenziale rischio, rimesso alla libera valutazione dell’autorità pubblica, che, in mancanza di altri elementi, potrebbe essere individuato anche nella sola circostanza basica che al raduno partecipino più di 50 persone.

A voler seguire i timori espressi, con i numeri delle classi pollaio di oggi basterebbe, insomma, che solo due classi chiudano i cancelli di una scuola e vi si accampino all’interno ed il raduno pericoloso è fatto.

Non sarà un po’ troppo? Non è forse palese il contrasto con una libertà garantita dalla nostra Legge Fondamentale, perlopiù introdotto da uno strumento provvisorio – qual è il decreto legge – che tra l’altro richiederebbe condizioni straordinarie, necessarie o urgenti, difficilmente ravvisabili in questo frangente se lo si confronta con un cataclisma naturale?

Forse sarebbe allora opportuno che stavolta la “necessità” venisse vagliata anche in sede di conversione del decreto, puntando sull’”urgenza” di non innescare scivolose questioni di legittimità costituzionale.

Tanto più che laddove principi, diritti, doveri e libertà sono già individuati, basterebbero norme che ne deliniino le concrete modalità attuative, piuttosto che provvedimenti estemporanei che ardiscano a sorpassarli.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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