Il 2023 si è chiuso senza che nessuno sapesse dov’erano finiti un lavoratore su due. Non è un inquietante caso di scomparsa di massa di cui si sospetta un intervento alieno, ma la difficile situazione che hanno affrontato le imprese italiane lo scorso anno, quando all’appello delle necessità produttive sono mancati i lavoratori sufficienti almeno a coprire le più urgenti richieste di manodopera.
È l’inquietante dato a cui arriva “Previsioni dei fabbisogno occupazionali professionali in Italia a medio termine”, un documento realizzato dal “Sistema Informativo Excelsior” di Unioncamere e Anpal che si concentra su un orizzonte quinquennale, dal 2022 al 2026, fornendo un modello econometrico multisettoriale che consente anche di prevedere l’evoluzione dell’occupazione per 35 settori e il loro relativo fabbisogno occupazionale.
I sintomi del vuoto della forza lavoro, secondo il “Sole 24 Ore”, si erano già palesati con forza durante i click day dello scorso dicembre per le richieste di ingressi di lavoratori extraeuropei, quando al netto di 136mila nuovi arrivi regolati dalla legge sui flussi migratori, le domande avevano superato quota 600mila. Va da sé che neanche l’arrivo contingentato di lavoratori extraeuropei è riuscito a lenire gli effetti di numeri che oggi, a quasi un mese dall’inizio del 2024, spiegano tutto lo sconforto provato dal settore produttivo lo scorso anno, quando è rimasto al palo con 5,5 milioni di contratti di lavoro pronti e inutilizzati.
Un dato globale che tuttavia, se analizzato scendendo nel dettaglio di diversi settori produttivi, si fa ancora più inquietante: 58,4% la mancanza di personale nell’industria metallurgica, 57,6% in quella edile, 57,1% nel comparto legno e mobile. In linea di massima, soffre di più l’industria (52,7%) che i servizi (42,1%), e sempre in modo indicativo, le situazioni più tormentati, con valori sopra la media, si vivono quotidianamente in Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia-Giulia, Emilia-Romagna, Umbria e Marche.
Ma il peggio, sempre secondo il rapporto, è che la situazione non sembra destinata a migliorare neanche quest’anno, con una stima di Confindustria che parla di 508mila nuovi addetti necessari nel settore della manifattura e una previsione che nella migliore delle ipotesi parla di una copertura al massimo prevista nel 45%, meno della metà. Non va meglio per l’Ance, che individua in 65mila nuovi addetti il personale necessario per far fronte agli investimenti del Pnrr, più altri 150mila lavoratori per il settore delle case green, su cui la UE diventa sempre più sensibile, e per finire l’agricoltura, che necessita di 80-100mila lavoratori in più, ma è forse unico settore che può sperare di compensare la carenza attraverso i flussi migratori.
A pesare sul preoccupante mismatch complessivo si aggiunge la scarsa rispondenza di percorsi scolastici e formativi che sappiano indirizzare i più giovani verso le professioni più ambite e la costante riduzione dei lavoratori attivi fra 15 e 64 anni nel nostro Paese, mentre ancora sono tutt’altro che superate le conseguenze della “Great Resignation”, il fenomeno post pandemia che ha portato milioni di persone a lasciare all’improvviso il loro lavoro nella speranza di trovarne uno che permettesse di difendere il diritto al “work-life balance”, i due piatti della bilancia in cui uno è dedicato al lavoro, e l’altro alla vita personale.
Ciò che sta accadendo nel mondo del lavoro era già stato avvistato all’orizzonte da tempo. Ma negli ultimi tre anni la pandemia, la guerra, la crisi economica e quella devastante dei semiconduttori, insieme ad un settore manifatturiero che oggi non attrae più come un tempo e ad un improvviso innalzamento tecnologico necessario alle aziende per riuscire ad essere competitive, con diretta mancanza di personale preparato e in grado di gestire nuove linee di produzione, impongono alle imprese un profondo cambio di paradigma, la necessità di reagire, adeguarsi e trovare soluzioni al cambiamento. Una serie di concause ha mandando in crisi il meccanismo, per lungo tempo rimasto lineare, che regolava chi era alla ricerca di un lavoro e chi invece lo offriva.