Un tempo erano gli “emigranti”, gente che partiva in cerca di fortuna e a volte tornava a casa anni dopo arricchita, mentre di altri si perdevano le tracce per sempre. Un termine caduto in disuso insieme a molti altri perché portatori di un retrogusto dispregiativo. Oggi, al loro posto ci sono gli “impatriati”, gente del nuovo millennio, per lo più professionisti trasferiti in altri Paesi dalla propria azienda che in qualche modo rappresentano gli emigranti 4.0, un’evoluzione sociale che alla valigia di cartone preferisce il trolley con 4 ruote girevoli e alle cuccette del treno un volo aereo.
Lavoratori che si trovano ad affrontare periodi di durata variabile lontani dal proprio ambiente, e proprio per questo hanno diritto ad un regime fiscale speciale temporaneo e agevolato. Verso di loro, le aziende hanno una serie di obblighi, compresa la garanzia della parità retributiva con i colleghi stanziali. Rispetto agli emigranti dei tempi che furono, costretti a costruire da capo un’esistenza, la differenza non è di poco conto.
Secondo le stime più recenti, i lavoratori italiani distaccati verso altri lidi sono circa 190mila, inviati per lo più in Paesi UE, con Francia e Germania come destinazioni principali. Per l’effetto inverso, il nostro Paese ne accoglie circa 108mila, provenienti in massima parte da Germania, Croazia e Romania. Un fenomeno che vale tanto per l’Italia quanto per il resto d’Europa, dove si contano più di 2,6 milioni di “expats” che per il 92% sono maschi impiegati nel settore manufatturiero (39%) o della logistica e dei trasporti (31%).
Quasi inutile aggiungere, in coda al discorso, la diffusione sempre più massiccia dello smart working, ma questa volta di taglio internazionale. Le regole, in realtà, non cambiano: si lavora per la propria azienda ma da remoto, con la possibilità di restare nel proprio Paese, diverso da quello dove ha sede l’azienda. Lo scorso anno, secondo una ricerca realizzata da “ECA Italia” su un campione di aziende tra piccole, media e grandi, il 79% ha optato questa modalità di lavoro transnazionale, mentre nel 49% dei casi la richiesta arrivata direttamente dal lavoratore, per evitare il trasferimento all’estero che avrebbe comportato problemi logistici al nucleo familiare.
“Le imprese anno dopo anno stanno ampliando la ricerca e gestione dei talenti a livello globale per costruire una forza lavoro diversificata che contribuisca alla crescita aziendale. Si tratta di una mobilità internazionale del lavoro che porta una crescente quota di dipendenti a lavorare per la stessa azienda ma, per alcuni periodi, in Paesi diversi da quello di residenza – ha precisato Andrea Benigni, CEO E.C.A Italia - in Italia, inoltre, emergono spesso necessità specialistiche che il mercato del lavoro locale non è in grado di soddisfare, portando alla ricerca di esperti residenti all’estero. Uno scambio di professionisti flessibili in termini di luogo di lavoro, dislocabile su una dimensione territoriale che va oltre i propri confini nazionali. E i numeri del fenomeno indicano un trend ormai strutturale di mobilità internazionale dei talenti che implica anche una complessa gestione di aspetti fiscali e normativi internazionali e locali per le aziende”.
Dal novembre dello scorso anno, in applicazione della Direttiva UE del 2021, anche in Italia è entrata in vigore la “Blue Card” per l’assunzione di lavoratori extracomunitari altamente qualificati.
Una norma che, con l’introduzione di un regime più attrattivo, ha come obiettivo colmare il divario professionale che frena le aziende italiane nel reclutamento di personale tecnico specializzato non laureato in diversi settori in cui il fabbisogno occupazionale è stimato in 4,5 milioni di lavoratori nel quinquennio 2022 – 2026.
“Il decreto rappresenta un passo importante verso una politica migratoria più efficace e inclusiva, garantendo alle aziende la possibilità, fino ad oggi negata, di assumere personale specializzato anche se non laureato per far fronte ai propri fabbisogni operativi, associando anche un regime fiscale di grande attrattività per talenti provenienti da tutto il mondo - conclude Benigni - con questo nuovo strumento normativo le aziende italiane che spaziano dall’automazione industriale passando per meccatronica, automotive o ingegneria vedono ampliare in forma esponenziale il loro bacino geografico di reclutamento, potendo in tal modo far fronte a quel fenomeno di people scarcity che condiziona a diversi livelli l’operatività dei business”.