Sulla facciata della casa di Emilio Scalzo, a Bussoleno, un grande murales che si estende su due lati raffigura un lupo impigliato in una trappola.
Le tagliole che lo stringono scendono da una bilancia, cui sono appese in vece dei piatti. Sopra, incombe un orologio che segna un’ora indefinita; in basso, una cornacchia e un topolino, sorreggendo un paio di tronchesi, tentano di recidere le catene che trattengono la selvaggia creatura dei boschi.
È una potente allegoria, che inneggia alla trappola della Giustizia falsata e al tempo arbitrario del potere, da cui tenta di svincolarsi il grande lupo con la tensione di tutti i suoi muscoli, aiutato soltanto da due piccolissime ed insignificanti creature che, con la loro tenacia e il loro umile e paziente coraggio, possono tuttavia aiutarlo a tornare libero.
L’opera è dell’artista abruzzese Andrea Parente, in arte Alleg (che qualche anno fa, in occasione del festival d’arte e cultura Borgo Universo, per celebrare i 40anni della scomparsa di Ignazio Silone aveva trascritto “Fontamara”, con un pennello, sopra la facciata di un edificio pubblico nel borgo marsicano di Aielli), che ha voluto così omaggiare la popolazione della Val di Susa, impegnata quotidianamente nella lotta No Tav.
Emilio è un membro di quella comunità, anzi, è uno degli attivisti più noti del movimento No Tav e dell’intera Val di Susa, che conosce a sua volta palmo a palmo, per averne girato tutti i mercati col suo banco di pescivendolo.
Vi è giunto dalla sua Sicilia quando aveva solo 13 anni, nel 1968. La sua era stata una migrazione necessaria, la sola scelta possibile per potersi costruire una vita diversa in un luogo in cui il suo pesante cognome non gli fosse d’ostacolo per associazione alla condotta dei suoi numerosi fratelli, che già da ragazzi avevano invece intrapreso la strada della malavita e aperto conti con la giustizia.
Un’esistenza specchiata, la sua, fatta di rispetto delle regole, di lavoro infaticabile, di amore e fedeltà verso la sua famiglia. L’ha raccontata per lui Chiara Sasso, nel libro “A testa alta”, ripercorrendone tutte le tappe: dalle sue esperienze giovanili di pugile, prima, e di calciatore, poi, fino all’incontro con il movimento No Tav, nel 2005, l’anno che ha segnato la nascita dei primi presidi permanenti.
Tra questi c’era quello di Venaus, un antico borgo nel quale era stato deciso che andassero eseguiti i primi sondaggi finalizzati alla realizzazione della linea dell’alta velocità. S’era trattato inizialmente di un piccolo picchetto: poche sedie, qualche termos e alcune tende, ma pian piano si era allargato fino a divenire una sorta di villaggio autogestito. Perciò, quando fu chiaro che il fenomeno stava facendosi notare e sentire, erano state inviate le forze dell’ordine per smantellare il presidio. Si era allora sollevata un’ondata di solidarietà a favore dei manifestanti, che aveva coinvolto i cittadini e tantissimi operai delle fabbriche della Valle, per l’occasione scesi in sciopero. Il primo sgombero del 29 novembre di quel 2005 era stato dunque scongiurato, ma, nonostante la strenua difesa, nulla si era potuto contro quello successivo, operato nella notte tra il 5 e il 6 dicembre, quando i militari erano tornati con le ruspe distruggendo qualunque cosa si trovasse sul loro cammino.
Tuttavia i valsusini non si erano dati per vinti e due giorni dopo avevano organizzato una grande manifestazione alla quale avevano preso parte migliaia di persone partite da Susa e dirette a Venaus, con l’intento di riprendersi il presidio. E così era stato.
Da allora l’8 dicembre rappresenta una data fondamentale per il movimento No Tav.
Dopo quei fatti, Emilio è diventato uno strenuo attivista del movimento, cui si è dedicato con tutto se stesso, giungendo a collezionare una serie di denunce e provvedimenti cautelari a causa del suo impegno e della sua azione a difesa della Valle.
Ma non solo: Emilio ha cominciato a farsi notare anche per il suo impegno con il movimento No Border a favore dei migranti, centinaia di esuli in cerca di fortuna (come un tempo era stato anche lui) che ogni anno, giungendo dalla rotta Balcanica, si fermano in quegli ultimi avamposti italiani – Oulx o Claviere -, al confine con la Francia, prima di tentare d’entrarvi o proseguire verso la Germania.
Così si è ritrovato agli arresti domiciliari – nella sua casa col murales del lupo - perché colpevole di aver violato il divieto, imposto a suo carico, di dimorare in alcuni dei comuni della Valle; dieci, in particolare, cinque dei quali confinanti con l’area del cantiere dell’alta velocità e altrettanti più a nord, al confine francese, dove conduce il suoi impegno in favore dei migranti.
Eppure Emilio non si sente colpevole, né sente d’aver tradito l’antica promessa di volersi distinguere dai suoi fratelli “perduti”. Una volta, anzi, parlando con uno di loro (che, comunque, non ha dimenticato e ha continuato ad andare a trovare in carcere durante i loro periodi di detenzione) ha rivendicato come un onore i suoi conti con la giustizia: «La mia – ha detto - non è una carcerazione come la tua. Tu eri un gigante tra i delinquenti. Io sono una montagna tra gli onesti».
È vero. Eppure il suo impegno lo condanna, il suo nome forse pure.
A maggio scorso succede qualcosa: durante una manifestazione contro i governi di Francia e Italia, accusati di non fare abbastanza per proteggere i migranti, Emilio e altri attivisti impegnati a favorirne il passaggio in Francia si scontrano con i gendarmi francesi, nell’area tra Claviere (che è ancora Italia) e Monginevro (in Francia). Da qui passa quella ormai definita “la via delle Alpi”, una strada impervia e pericolosa tra le montagne, che i migranti hanno iniziato a percorrere dal 2017, allorché i gendarmi francesi hanno deciso di inasprire i controlli tra Ventimiglia e Mentone.
Nello scontro, un gendarme riporta una frattura al braccio e Scalzo viene individuato come colpevole. In realtà Emilio si sarebbe solo difeso da una manganellata sferratagli dal gendarme, proteggendosi con un bastone che aveva in mano. Sarebbe stato dunque il braccio del gendarme a colpire il bastone e non viceversa.
Tuttavia la magistratura di Gap – cittadina a 100 chilometri dal confine italiano – emette nei confronti di Emilio un Mandato d’Arresto Europeo (MAE), una specie di estradizione rapida e semplificata che consente all’autorità giudiziaria di uno stato membro dell’Unione Europea di richiedere che si proceda all’arresto di una persona in un altro Stato con un iter esclusivamente giudiziario, senza dunque l’intervento politico dei ministeri della Giustizia.
Lo scorso settembre Emilio viene dunque prelevato dalla sua casa di Bussoleno e rinchiuso nel carcere delle Vallette a Torino. Vi resta nove giorni, dopodiché gli vengono concessi gli arresti domiciliari.
Nel frattempo il suo avvocato impugna il provvedimento presso la Corte d’Appello di Torino ma con esito negativo; quindi si rivolge alla Cassazione che, a sua volta, respinge il ricorso lasciando perciò via libera alla consegna di Scalzo alla Francia.
Ma è la motivazione della decisione della Suprema Corte che lascia perplessi: l’”estradizione” di Scalzo non è determinata dalla sua condotta o dall’aggravamento dei suoi “crimini” ma, semplicemente dal pericolo rappresentato, davanti casa sua, “dalla presenza costante di un presidio volto a ostacolarne la consegna all’autorità francese”. In pratica, Scalzo è stato portato in carcere non perché abbia fatto qualcosa, ma perché fuori da casa sua c’era un presidio di solidarietà.
Colpevole di umanità. Vittima della solidarietà.
Queste sono, dunque, le reali colpe di Emilio, le stesse che hanno condannato Mimmo Lucano.
E così, lo scorso 1° dicembre, tutte le strade attorno alla sua casa sono state bloccate da blindati della polizia che, con le sue squadre speciali e mesti agenti in borghese, l’ha prelevato e portato via tra gli applausi e l’incitamento di un manipolo di quei pericolosi (!) suoi solidali sostenitori, che in quel momento - come tutti - non vedevano un reo, ma una persona per bene, consegnata alla giustizia dalla sua stessa generosità.
Alle sue spalle, dal muro di casa, il lupo intrappolato l’ha seguito con lo sguardo e la sua sofferente espressione di rabbia e dolore.