Tra Predol, comune più a nord d’Italia, e Lampedusa, quello più a sud, la storia e il destino di questo Paese hanno sparso 7.898 comuni. Malgrado negli ultimi anni il numero sia calato di oltre 200 unità secondo alcune correnti di pensiero sono ancora troppi, anche perché in molti casi si tratta di posticini esageratamente piccoli per riuscire a garantire servizi alla comunità e soprattutto in grado di assicurarsi la sopravvivenza.
Non a caso, racconta uno studio realizzato dalla “Fondazione Nazionale dei Commercialisti”, realizzato elaborando le rilevazioni della Banca dati delle amministrazioni pubbliche, Banca dati sulle criticità finanziarie dei comuni, Itel (istituto per la Finanzia e l’Economia Locale), Corte dei Conti e Ministero dell’Interno, dal 1989, anno di entrata in vigore della legge sul dissesto dei Comuni, più di uno su 10 è andato in crisi o lo ha dichiarato di recente. Per essere ancora più precisi con i numeri si parla di ben 761 comuni in stato di crisi, e di questi, dal 2012, per 556 è stato necessario far scattare le procedure di riequilibrio finanziario. Al momento, malgrado le cifre possano apparire migliori, la situazione è sempre da prognosi riservata: 470 i comuni che hanno denunciato problemi di bilancio, e di questi 257 si trovano in fase di predissesto e 213 in dissesto. In realtà, spiega il documento, tra i 761 enti dissestati tra il 1989 e il 2023 rientrano anche casi più preoccupanti che riguardano i capoluoghi di Provincia, con circa 70 dichiarazioni di doppio dissesto.
Il problema e le preoccupazioni maggiori, come si accennava prima, le sollevano soprattutto i piccoli comuni, minuscole realtà sovente rurali con meno di 5.000 abitanti (53%), o addirittura che raggiungono a malapena le 2.000 anime (28%), per finire con il 46% dei comuni con popolazione compresa tra 5000 e 10mila abitanti. Spesso si tratta di piccoli borghi che fanno gongolare i turisti dove il tempo sembra non sia passato e le tasse neanche, con il risultato che difficilmente le amministrazioni locali trovano modo di uscire con le proprie forze dalla crisi entro i cinque anni concessi dalla legge.
“Il quadro delineato da questa ricerca – ha commentato il Presidente del Consiglio nazionale dei commercialisti, Elbano de Nuccio – mostra l’importanza strategica di individuare procedure operative in grado di garantire la continuità dell’attività dell’organizzazione o dell’ente. Urgenza che, nel caso dei Comuni, è accresciuta dal fatto che il dissesto, oltre a ostacolare la ordinata estinzione dei debiti e, dunque, la salute economica dei fornitori a vario titolo, interrompe il funzionamento democratico dell’ente locale e la continuità degli organi eletti”.
Imputato numero uno, l’oggettiva difficoltà a riscuotere i tributi, una capacità che si ferma al 44% per la Sicilia, al 34% della Calabria e il 38% della Campania. Tre regioni a cui spetta anche il record di tasso di dissesto, rispettivamente al 28, 27 e 23%. Al sud, in linea generale, si concentrano 633 comuni in dissesto, l’84% del totale, con Campania (188), Calabria (209) e Sicilia a dividersi il podio.
Il peggio, è che nei comuni in dissesto – conclamato o annunciato - vivono circa 2,7 milioni di italiani, il 5% della popolazione nazionale, e quello ancora peggiore è che l’elaborazione mostra “una ripresa, negli ultimi anni, dei fenomeni di criticità finanziaria, evidenziata in primo luogo dal quadro offerto dalle diverse situazioni di deficit confermata dalla dinamica dei dissesti”.
“È ormai nota – riprende De Nuccio – l’inadeguatezza a farvi fronte da parte delle regole attuali del predissesto: i vari interventi normativi che sono stati introdotti in maniera disomogenea negli ultimi anni hanno creato ancor più confusione in una materia che richiede un intervento armonico e strutturale necessario a porre rimedio ad un funzionamento imperfetto di tutta la catena di regole che dovrebbero prevenire il manifestarsi del default”.
Sulla questione, diventata impellente, è al lavoro il Parlamento, ma nell’attesa i commercialisti propongono una serie di soluzioni a costo zero che possano dare respiro ai comuni: la revisione dei parametri che individuano le situazioni di squilibrio, l’introduzione di un “rating della salute finanziaria” e il rafforzamento dei controlli nei Comuni con meno di 15.000 abitanti.