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Il carcere della vergogna

Autore: Ester Annetta
Sul sito web della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno - Carcere di Torino, alla sezione “Servizi”, una pagina è dedicata al Reparto di Osservazione Psichiatrica “Il Sestante”.

Vi si legge, preliminarmente, che la ASL TO 2 Nord, tramite il proprio dipartimento di salute mentale, ha istituito un Servizio psichiatrico interno al carcere, che collabora con la Direzione dello stesso “alla prevenzione e al riconoscimento del disagio psichico nelle sue varie forme oltre che, naturalmente, al trattamento dei disturbi psichici riconosciuti”.

Si precisa, poi, che il servizio prevede: attività psichiatrica ambulatoriale (attiva sei giorni su sette - e anche nei festivi in casi di urgenza – con la funzione di individuare, diagnosticare e trattare i disturbi psichici dei detenuti); attività psichiatrico-forense istituzionale (col compito di redigere relazioni cliniche su richiesta delle Autorità giudiziarie ai fini di giustizia); attività psicologica ambulatoriale (finalizzata al sostegno psicologico e al trattamento psicologico breve focalizzato, per detenuti che esprimono un disagio psichico e manifestano la volontà di trattarlo); Reparto di Osservazione psichiatrica "Il Sestante", cui è dedicata una specifica più nutrita. Si dettaglia, infatti, che tale reparto svolge “attività di osservazione e trattamento di detenuti portatori di gravi disturbi psichici provenienti da tutto il territorio nazionale” con il coinvolgimento di una “equipe multiprofessionale (psichiatri, psicologi, infermieri professionali, educatori professionali) che opera in senso terapeutico e riabilitativo attraverso tecniche individuali e di gruppo”. Con una nota di compiacimento si precisa, ancora, che “Il Sestante rappresenta il centro di riferimento regionale per il trattamento delle patologie psichiatriche più gravi manifestate da soggetti detenuti nonché uno dei centri di riferimento dell’Amministrazione penitenziaria a livello nazionale.”

L’attività clinica del reparto si svolge in due articolazioni: un Reparto osservazione e un Reparto trattamento.
Il primo è dotato di celle singole con videocamera, nel quale l’attività clinica (che prevede visite mediche e psichiatriche, colloqui psicologici e psicoeducazionali), è rivolta a soggetti in fase acuta o sub-acuta di malattia. Ove, tuttavia, sia riscontrata una sintomatologia particolarmente acuta, si ricorre al ricovero presso il Reparto Detenuti dell’Ospedale San Giovanni Battista di Torino anche, eventualmente, in regime di Trattamento Sanitario Obbligatorio.

Il secondo reparto prevede celle doppie e socialità aperta per la quasi totalità del giorno, con prevalenza di attività riabilitative e risocializzanti (mediante utilizzo di tecniche di gruppo: riunioni di reparto, psicoterapia gruppale, arte terapia, teatro, sport).

La chiosa finale della pagina riporta, tra gli scopi del Servizio Psichiatrico presso la Casa circondariale, quello di garantire “la continuità terapeutica per i soggetti affetti da disturbi psichici precedenti all’ingresso in carcere e il rapporto costante con i Servizi territoriali di loro competenza nonché il tentativo di evitare, in tutti i casi possibili, l’invio anche per brevi periodi all’Ospedale psichiatrico giudiziario”.

Tutto perfetto, se solo funzionasse.

Invece la realtà è ben altra, così misera e devastante che la priorità pare meglio essere quella di sprangarlo quel reparto piuttosto che tesserne le lodi.


Le sue storture non più di qualche settimana fa erano già state denunciate dal Garante dei diritti delle persone private della libertà, che ne aveva sollecitato la chiusura. Poi la dose è stata rincarata da una lettera aperta scritta da Susanna Marietti, presidente nazionale dell'associazione Antigone (che si batte per i diritti dei detenuti) apparsa su un quotidiano nazionale dopo una visita fatta al Sestante. L’urgenza è stata quella di raccontare a tutti ciò che accade tra le mura di quel reparto; la richiesta, perentoria, che esso venga chiuso immediatamente, “non domani, non tra una settimana, non tra un mese”.

“Al Sestante si trovano circa venti celle – scrive Marietti - dieci su ogni lato del corridoio. In ciascuna è reclusa una singola persona detenuta. La cella è piccola, sporca, quasi completamente vuota. Al centro vi è un letto in metallo scrostato e attaccato al pavimento con dei chiodi. Sopra è buttato un materasso fetido, a volte con qualche coperta e a volte no. Qualcuno, ma non tutti, ha un piccolo cuscino di gommapiuma. Non vi è una sedia né un tavolino. Solo un piccolo cilindro che sembra di pietra dove ci si può sedere solo in posizione scomodissima. L’intera giornata viene trascorsa chiusi là dentro, senza nulla da fare e nessuno con cui parlare. Unico altro arredo, un orrendo bagno alla turca posizionato vicino alle sbarre, di fronte agli occhi di chiunque passi per il corridoio”.

Racconta di quegli invisibili, ombre dei se stessi che sono stati, incontrati in quell’inferno: in una cella vi era un uomo sdraiato al buio sul pavimento, senza che nessuno si preoccupasse di tirarlo su. In un’altra un ragazzo, che a stento si reggeva in piedi, che parlava rivolto verso il muro ad un qualcuno che solo lui poteva vedere. Un altro che, avvicinatosi alle sbarre, aveva chiesto ai visitatori se potevano far riparare la turca della sua cella che da quattro giorni non scaricava le sue feci. Un altro che chiedeva un po’ di luce, perché da giorni la sua cella era senza lampadina. Un altro pure barcollava, imbottito di psicofarmaci al punto di non riuscire nemmeno ad articolare le parole mentre cercava di chiedere di parlare col suo avvocato.

“Nell’ultima cella prima dell’uscita c’era un ragazzino. Avrà avuto venticinque anni – scrive ancora Marietti - Gli ho chiesto come andasse. Le lacrime hanno cominciato a scendergli dagli occhi. Mi ha detto che non capiva perché fosse lì, che gli mancava sua madre e che aveva tanta paura tutte le notti. Mi ha pregato di farlo trasferire. Gli ho spiegato che non avevo alcun potere in questo senso, ma mi sono fatta dare il numero di telefono della mamma, che lui sapeva a memoria. Gli operatori mi hanno spiegato che erano in attesa che si liberasse un posto in una Rems, le residenze a vocazione sanitaria per l’esecuzione delle misure di sicurezza psichiatriche. Il ragazzo non avrebbe dovuto trovarsi lì, non c’era titolo per la sua detenzione. Sono uscita e ho chiamato la madre. Era contenta che almeno qualcuno avesse visto suo figlio. Lei non ci era riuscita, nessuno le aveva detto dove lo avessero portato”.

Siamo davvero oltre lo smarrimento di quella funzione riabilitativa che dovrebbe attribuirsi alla pena; siamo anzi di fronte ad una ben più evidente disfunzione: quella che consente che esseri umani possano vivere in condizioni disumane, spogliati della loro identità e della loro dignità, senza alcun rispetto per quel dovere di cura ed assistenza che la nostra Carta Costituzionale riconosce a tutti i cittadini, anche se malati psichiatrici, anche se detenuti.

Allora associamoci all’invito di Antigone: che le autorità centrali si facciano più attenti alle realtà delle periferie penitenziarie; che gli operatori dell’informazione possano entrare al Sestante per portarne fuori il racconto della sua abominevole realtà; che tutti sappiano che l’inferno spesso non è solo immaginazione.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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