Si potrebbe pensare di scomodare addirittura la Constitutio Antoniniana – l’editto con cui, nell’anno 212 d.C. l’imperatore Caracalla concesse la cittadinanza romana a tutte le popolazioni abitanti entro i confini dell'Impero – per sottolineare quanto la questione del riconoscimento dell’appartenenza degli individui al territorio che abitano sia sempre esistita, qualsiasi sia la ragione (conquista, esodo, nascita) della loro confluenza in un luogo diverso da quello d’origine.
Che la necessità di trovare una soluzione risponda, poi, a ragioni d’ordine pratico (già per Caracalla c’erano quelle dell’”allineamento fiscale” – giacché occorreva generalizzare le imposte affinché non gravassero solo sui cives – e quella dell’uniformità del diritto applicabile: col riconoscimento della cittadinanza anche agli stranieri conquistati, il diritto romano si rendeva applicabile in ogni propaggine dell’Impero) o sia piuttosto primariamente da ricondurre ad esigenze di maggior spessore - quali l’effettività dell’inclusione, che spesso ancora pecca di incongruenze tra sostanza e forma - è anch’esso un aspetto ancora dibattuto.
Ciclicamente se ne torna a parlare, sull’onda d’una qualche vicenda concreta (come fu alle Olimpiadi di Tokyo 2020 in occasione della vittoria dell’oro nei 100 metri piani di Marcell Jacobs -nato in Texas ma cresciuto in Italia – che ha riproposto la questione dei limiti dello ius soli sportivo) o d’una qualche proposta di legge poi destinata ad impantanarsi. Così è stato difatti durante la legislatura 2008-2013, quando si discusse dell’introduzione dello “ius soli” come principio per l’acquisto della cittadinanza italiana, in considerazione della crescente presenza di stranieri di seconda generazione, cioè di bambini nati in Italia da genitori stranieri.
Nel 2015 si era poi giunti all’approvazione di una proposta di legge alla Camera, cui però non è seguita quella del Senato: essa intendeva introdurre lo “ius soli temperato”, ossia la possibilità del riconoscimento della cittadinanza italiana per i figli - nati in Italia – da immigrati stabilmente residenti sul territorio nazionale.
Un parziale successo in tal senso – ma solo per ragioni di merito sportivo che, in realtà, sanno più di opportunismo politico - si è avuto con la legge 20 gennaio 2016 n. 12 che ha riconosciuto il principio dello ius soli sportivo - prima accennato - che permette ai minori stranieri regolarmente residenti in Italia, almeno dal compimento del decimo anno di età, di essere tesserati dalle federazioni sportive italiane con le stesse procedure previste per il tesseramento dei cittadini italiani, cosicché possano fare sport. Tuttavia non possono essere inseriti nelle selezioni nazionali, per le quali, ancora oggi, è necessario avere la cittadinanza italiana.
È forse utile a questo punto aprire una breve parentesi su quali siano in Italia i criteri per l’acquisto della cittadinanza, così come ridefiniti dalla Legge n. 91/1992.
Vale sostanzialmente solo lo ius sanguinis, e dunque è cittadino italiano chi è figlio di uno o entrambi i genitori cittadini italiani, anche se nato all’estero.
Non vale, invece, lo ius soli: il figlio nato in Italia da genitori entrambi stranieri non ha la cittadinanza italiana, che tuttavia può ottenere “per elezione”, cioè se si risiede legalmente ed ininterrottamente fino ai 18 anni in Italia, a condizione che la richiesta venga fatta entro un anno dal compimento della maggiore età.
Le sole eccezioni in cui la nascita in Italia è titolo per la cittadinanza sono quelle del figlio nato da genitori entrambi ignoti o apolidi o da genitori di cui non segue la cittadinanza secondo la legge dello Stato al quale questi appartengono.
E’ infine ottenibile per matrimonio o unione civile con un cittadino italiano (in tal caso serve che la residenza resti in Italia per almeno due anni dopo la data del matrimonio) o per naturalizzazione, ossia residenza in Italia protratta per dieci anni, rispettando tutta una serie di requisiti (redditi sufficienti, assenza di precedenti penali e motivi ostativi per la sicurezza della Repubblica).
La critica maggiore che si rivolge a questa legge, ormai vecchia di 30 anni, è di non essere più in linea con il mutato quadro civile - caratterizzato da un presenza massiccia e ormai strutturata di stranieri all’interno del tessuto economico e sociale - e di presentare perciò anche delle contraddizioni: si pensi ad esempio alla previsione (art. 9 comma 1 lett. a) che ammette che con decreto del Capo dello Stato la cittadinanza possa essere riconosciuta “allo straniero del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita, o che è nato nel territorio della Repubblica e, in entrambi i casi, vi risiede legalmente da almeno tre anni”, e invece non la si riconosce al figlio di stranieri che sia nato e cresciuto in Italia.
Di tali difetti si torna perciò a discutere in occasione della recente proposta dello “ius scholae” che la Camera ha iniziato ad esaminare lo scorso 29 giugno. Si tratta della possibilità che i genitori stranieri regolarmente residenti in Italia chiedano la cittadinanza italiana per il proprio figlio minore che sia nato in Italia o vi abbia fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età, che vi sia rimasto residente legalmente e senza interruzioni e che vi abbia frequentato regolarmente per almeno cinque anni uno o più cicli presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di istruzione e formazione professionale triennale o quadriennale idonei al conseguimento di una qualifica professionale.
Ancora una volta non è solo una questione di forma, ma più che mai di sostanza. Gli ultimi dati Istat dicono che ci sono più di un milione di minori stranieri in Italia e sono oltre 870mila gli studenti di origine straniera nella scuola italiana, per quasi due terzi nati in Italia. La mancanza del “pezzo di carta” che li riconosce cittadini ha implicazioni molto serie, poiché impedisce loro l’accesso a percorsi formativi - quali campi scuola ed Erasmus - nonché a concorsi pubblici; li discrimina rispetto ai loro compagni, li priva del “diritto di sentirsi a casa” e membri effettivi di un contesto dove ancora vincono i privilegi, se è vero che l’attenzione al tema è scossa più da un successo sportivo che non può essere vantato piuttosto che dall’appartenenza effettiva ad un luogo in cui si è nati, si studia e si impara a stare al mondo ed in cui si finisce per affondare le proprie radici.
Bisognerebbe partire da qui, allora, assecondare tale ennesimo tentativo di uniformazione compiendo questo primo passo che come non mai rende verità all’idea della cultura come strumento di libertà, mezzo per abbattere muri che creano discriminazione. Bisognerebbe rendersi artefici di saggi e prudenti interventi che ci sollevino dall’incoerenza di aver reso obbligatorio l’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole quando poi si persevera nel mantenere la disuguaglianza, dall’imbarazzo di contare i numeri della dispersione scolastica e dalla responsabilità di contribuire all’erosione della fiducia nel proprio futuro che gran parte degli studenti oggi accusano, dalla miopia di non considerare una priorità quella che è una realtà di vita che veste abiti ormai troppo stretti.
Basterebbe prendere coscienza che l’Italia dei giorni nostri è fatta di tanti colori che non la imbrattano e non l’avviliscono ma, anzi, rappresentano un arricchimento, un ampliamento di opportunità e di prospettive di fronte al quale l’intolleranza e la pretesa di ghettizzare vanno bandite.
Solo vista così la cittadinanza avrebbe davvero senso come diritto piuttosto che essere ancora considerata una concessione o privilegio.