La pagina Facebook della Pizzeria Le Vignole è ferma alle 11.26 dell’11 gennaio scorso.
L’ultimo post è lo screenshot di una recensione negativa data da un cliente che lamentava di essere stato messo a mangiare accanto a dei gay e ad un ragazzo in carrozzina che mangiava con difficoltà, e di essersi pertanto sentito a disagio.
A seguire, c’è la replica di Giovanna Pedretti, la titolare della pizzeria, che, dopo aver illuminato il cliente sul codice morale del proprio locale, sul rispetto e l’educazione che si riserva a chiunque lo frequenti, lo licenzia garbatamente invitandolo a non far ritorno, almeno finché non abbia ritrovato nel suo atteggiamento un po’ dell’umanità di cui si mostra privo.
Tra i commenti ricevuti dal post spicca quello di una donna, disabile, che dice di avere i brividi nel leggere recensioni come quella, che dimostrano quanto lavoro ci sia ancora da fare per combattere il pregiudizio, e di apprezzare la risposta data dalla titolare del locale nel tentativo di trasmettere un po’ di sensibilità e senso civico all’autore della recensione.
Non è il solo commento positivo, anzi, ce ne sono centinaia di encomio e plauso a Giovanna per la sua lezione di umanità. Una curva ascendente di complimenti e gratitudine che d’un tratto, però, inizia la sua discesa e precipita quando qualcuno scrive che la recensione è falsa, che altro non è che un maldestro copia-incolla di altra recensione fatta tempo prima ad un diverso locale e della corrispondente risposta data dal proprietario, anch’essa ripresa e riadattata da Giovanna.
A scoprire quest’altarino sarebbe stato uno chef “emergente”, compagno di una nota giornalista che, a sua volta, poco prima di Natale ha portato allo scoperto “l’inganno del pandoro” di un’altra imprenditrice, di fama e nome ben più noti e diffusi di quello di Giovanna.
Si sarebbe insomma trattato di un sotterfugio creato ad arte per far salire la reputazione del locale e l’interesse di potenziali clienti.
Ma le parole hanno un peso e possono far male come sassi lanciati per lapidare, come spade pendenti sul capo di un potenziale bersaglio, come gogne che espongono il malcapitato al biasimo ed al pubblico ludibrio di quanti repentinamente si trasformano in giudici ed esecutori di sentenze.
Perciò Giovanna - che di cognome fa Pedretti e non Ferragni, che è conosciuta solo nel proprio quartiere o, al massimo, nella sua Sant’Angelo Lodigiano; che, con la sua pizzeria, ha solo quattro stelle e mezzo e 322 recensioni su Google anziché una pletora infinita e variopinta di followers; che non ha un “pool” di avvocati e comunicatori a difenderla e rappresentarla né un manager (tanto meno un social media manager) che può rispondere al suo posto o placare la tempesta social scatenata dalle accuse rivoltele… - ecco che si ritrova sola, a combattere contro quei macigni di parole da cui improvvisamente viene travolta e sopraffatta.
Quelle parole la uccidono. Letteralmente.
Perché difatti è così che viene trovata qualche giorno dopo quell’ultimo post: morta annegata tra le acque del Lambro, poco distante dalla sua auto.
Mentre scrivo, l’esito dell’autopsia non è ancora noto. Ma è molto probabile che quella di Giovanna sia stata una fine scelta, l’unica che dev’esserle sembrata possibile quando un’enorme condanna mediatica le si è rovesciata addosso, travolgendola più impetuosamente dei piccoli gorghi del fiume in cui è stata ritrovata.
Perché, resistere alle tempeste - specie quelle incontrollabili innescate dal giudizio di chi, forte del proprio seguito e armato della propria presunzione, ardisce di “tirare la prima pietra” – non è una prerogativa degli ingenui.
Viviamo in un tempo in cui la macchina del fango e quella del consenso funzionano allo stesso modo, passando cioè, attraverso i social e le parole.
Comunicare è allora più che mai un’arte e una virtù.
E diventa, perciò, una questione di sopravvivenza, giacché è dalla capacità di saperla gestire che dipendono in primis la propria fortuna, la propria credibilità e la propria reputazione. Che sono cose ben diverse dalla capacità, dal valore ed anche dalla qualità di ciò che si promuove.
A pensarci bene, tutto questo fa orrore.