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Il piacere perduto della conversazione

Autore: Ester Annetta
“Mobile lovers” è il titolo dato a un graffito di Banksy, apparso nel 2014 accanto ad un piccolo club di Bristol.

Riproduce una coppia di innamorati che si abbraccia, ma, nel mentre, ognuno dei due è intento a controllare lo schermo del proprio telefonino al di sopra della spalla dell’altro.

Il sottotitolo dell’opera potrebbe essere “L’amore ai tempi dello smartphone” e di fatto sembra voler rimarcare la mancanza di comunicazione reale – persino tra coppie - in un periodo in cui la comunicazione digitale è onnipresente.

Mi sono soffermata a lungo a contemplarla quando, qualche giorno fa, ho visitato la mostra dedicata al geniale e anonimo artista britannico, allestita in un apposito padiglione al secondo piano della nuova Stazione Tiburtina, a Roma, un luogo altamente simbolico ed evidentemente adatto ad ospitare un’esposizione sulla street-art.

Mi è allora tornata in mente una frase dello stesso Banksy: “Un muro è una grande arma. È una delle cose peggiori con cui colpire qualcuno.

Si tratta chiaramente di un’affermazione riferita alla sua intera opera, alla potenza che possono avere le immagini quando evocano situazioni o denunciano condizioni concrete, come in più di un’occasione egli stesso ha dimostrato di saper fare utilizzando, appunto, un muro. Basti pensare ai disegni realizzati in Cisgiordania, sul “muro della segregazione” costruito dall’esercito israeliano per separare i palestinesi dagli israeliani: un soldato israeliano che chiede a un asino il suo documento d’identità; una ragazzina palestinese che perquisisce un soldato; un uomo con metà volto coperto da una bandana che lancia un mazzo di fiori come se fosse una molotov; una colomba di pace che spiega le sue ali scoprendo un giubbotto antiproiettile inquadrato dal mirino di un’arma da fuoco; illusionistici squarci che spaccano il muro affacciandosi su paesaggi incantati.

Ho allora pensato a quegli altri muri che, come suggerito da “Mobile lovers” si ergono spesso tra le persone, frapponendo barriere comunicative che inevitabilmente conducono alla deriva della solitudine.

Siamo sempre più disabituati al dialogo vero, quello “in presenza”, a vantaggio di una comunicazione “schermata” che è tale non solo letteralmente, affidata cioè al display di un telefono o altro strumento digitale, ma anche perché falsata dalla distanza e dalla clandestinità indotta da filtri che alterano la reale immagine di sé.

Basta guardarsi intorno per accorgersi di quanto incombente e feroce sia tale distanza: sui mezzi pubblici, durante le pause nei luoghi di lavoro, persino al ristorante, la condizione ricorrente è quella di solitudini specchiate, poste l’una di fronte all’altra, che anziché guardarsi negli occhi e parlarsi, “conversano” virtualmente altrove, con un interlocutore invisibile.

Ed il peggio è che, sospinti da una malsana forma di competizione per cui, persino in un dialogo virtuale, si deve pur sempre avere l’ultima parola e stupire con frasi ad effetto, abilità sociali come il rispetto del turno di parola e la capacità di ascolto e di attenzione sono scomparse. Per contro si è diventati incessantemente prodighi di parole, quelle “a vanvera” perlopiù.

Protagonismo e narcisismo imperano, ma solo nello spazio finito di una tastiera che tuttavia catapulta in uno spazio astratto infinito. La stessa disinvoltura, la stessa sfrontatezza ostentate in un contesto virtuale sarebbero inesistenti in quello reale.

Che spreco di relazioni! Che svilimento di rapporti umani!

Il piacere della conversazione, del “trovarsi insieme” – come suggerito dall’etimologia latina del verbo, “con-versari” – è divenuto merce rara, contrabbandata dai pochi ancora rimasti fedeli all’idea di una comunità, di un “noi” in grado di abbattere i muri dell’isolamento dell’”io”, dove la comunicazione è reale, il confronto è concreto e costruttivo, e la parola non cede alla seduzione tecnologica di strumenti che privano il dialogo della sua naturalezza.

Un’aberrante conseguenza di tanta disabitudine alla conversazione è, paradossalmente, il proliferare di programmi, siti, articoli, testi che forniscono istruzioni su come affrontarla. Può sembrare assurdo, eppure in rete si trovano centinaia di decaloghi che raccolgono in ordine di efficacia il tipo di domanda o di argomento da mettere in campo per iniziarne o proseguirne una. E tra le indicazioni di punta c’è: “qual è l’ultimo video divertente che hai visto?

Se questo è il tenore, nemmeno vale la pena soffermarsi sulla sostanza delle domande ritenute utili a imbastire una conversazione: la loro scarsa qualità è evidentemente figlia dei tempi e dei temi che alimentano i dibattiti social, dai quali si tende a mutuarli anche in quelli reali.
Desta parimenti sconcerto la necessità stessa del dover ricorrere ad un abbecedario della conversazione, come se occorresse rieducarsi ad una conoscenza perduta e ad una pratica ormai desueta.

È segno che qualche volta le accelerazioni impresse dal progresso lasciano indietro norme e valori che invece dovrebbero essere connaturati agli individui.

Prima tra tutti la socialità.

Che è cosa ben diversa dai social.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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