Sette giorni per tirare il fiato dopo la lunga apnea imposta dalla paura.
Sette giorni per inventariare i pochi averi rimasti, le memorie, le tracce di un tempo di poco appena migliore.
Sette giorni per piangere i propri morti ed eleggere il luogo di una sepoltura che mai sarà stata, solo per avere coordinate dove poter, un giorno, piantare un germoglio che possa ricordare.
Sette giorni per prendere congedo dalla propria terra, dalla propria gente e da un passato prossimo che, benché misero e fragile, sapeva tuttavia di normalità.
Poi, di nuovo guerra e sangue.
La tregua di Gaza è durata appena il tempo di fare una conta più dettagliata dei morti e di scambiare vite con vite; calcoli messi in primo piano per distogliere l’attenzione dalla fuga che si svolgeva sullo sfondo, quell’esodo di corpi e imballi che ha lasciato indietro anime e identità.
Il cielo, rimasto per un po’ sereno e sgombero da scie di fuoco, fumo e rumore, ha ripreso a rimbombare del fragore di bombe, missili, velivoli da guerra; pianto e grida disperate di aiuto e di dolore sono tornati a riempire gli spazi vuoti tra un’esplosione e un crollo, tra il suono di una sirena e una pioggia di proiettili.
La paura è tornata a riempire cuori e occhi, come un fardello da cui non ci si riesce a liberare e che diventa pesante ad ogni ora che passa, fintanto che ci si sorprende d’essere ancora vivi.
La conta dei morti e dei feriti è subito ripresa: 184 degli uni e 589 degli altri solo venerdì sera.
Israele ha ripreso il suo lavoro di distruzione di Gaza, decisa a portarlo a termine.
Ciò che resta di quella striscia – franca, in un tempo non molto lontano – dev’essere cancellato, annientato, reso inabitabile. Come se lo scopo ultimo di questa guerra fosse non tanto la conquista di quell’ultimo lembo di terra ma lo sterminio dei suoi occupanti. Una nuova Nakba, al cui confronto quella del 1948 avrà conservato un minimo di civiltà, quasi fosse stata una sorta di prova generale incompiuta.
E nessuno – nessuno! –, tra coloro che potrebbero, sembra avere intenzione di intervenire per fermare questo genocidio, nemmeno nella maniera più rapida ed indiretta, che sarebbe quella di interrompere il flusso dei finanziamenti e delle forniture militari.
Nulla si salva: non le case, non le chiese e le moschee, non le scuole e gli ospedali.
Non ci sono più strade, condotte d’acqua, impianti elettrici; e nemmeno mulini, mercati, forni e quel minimo appena che occorrerebbe alla sopravvivenza della gente.
Non un filo d’erba potrà più crescere; non un ruscello potrà più scorrere. Come nella peggiore delle invasioni barbariche, ovunque resterà solo vuoto e desolazione, una terra arida e inospitale dove nessuno degli esuli potrà più fare ritorno.
E c’è quasi un cinico piacere da parte delle forze israeliane nell’ammirare tutto questo, il soddisfacimento di una sete di vendetta che non sarà appagata finché l’opera di distruzione non sarà completata.
Ma ad essere sconfitto non sarà Hamas, piuttosto l’intera etnia palestinese; perché è contro i palestinesi che ormai si combatte la guerra, non più soltanto contro Hamas.
Lo rende evidente l’uso indiscriminato degli strumenti impiegati per rintracciare ed eliminare le presunte cellule eversive.
Un’inchiesta giornalistica israeliana - poi ripresa da parecchi media globali - ha svelato che le Forze di Difesa Israeliane (IDF) utilizzano il sistema di intelligenza artificiale “Hasbora” (che vuol dire “Vangelo”) che sceglie gli obiettivi da attaccare. Cento al giorno.
Tra questi, l’esercito sceglie poi quelli da colpire effettivamente, tenendo conto anche di “raccomandazioni” elaborate dalla stessa IA, che, sulla base di presunzioni tratte dall’elaborazione di dati raccolti in un database (dove sono state riportate, negli anni – e senza consenso – informazioni personali e biometriche dei palestinesi), individuerebbe persone sospettate di essere agenti di Hamas o della Jihad Islamica.
L’esercito, quindi, bombarda e colpisce un’ampia area attorno all’obiettivo così individuato, incurante del fatto che, in tal modo, vengono anche uccise o ferite decine a anche centinaia di altri individui.
Del resto, come ha recentemente ammesso il portavoce dell’IDF, la campagna bellica in atto è focalizzata più sul danno che non sulla precisione, e sembra essere questa la versione più credibile, a fronte di quella fornita dal governo di Tel Aviv che invece assicura che l’unità responsabile dell’IA farebbe “quanto possibile” per evitare danni ai civili non coinvolti.
Ancora più cinica di quanto già non sia, di per sé, lo spirito vendicativo che sembra indirizzare le sorti di questa guerra, è questa consapevolezza che a supportarlo vi sia un’intelligenza non umana, cui è perciò perfino ridicolo ed inutile addossare un’accusa di disumana crudeltà.
Ed è oltremodo grottesco che il compito assegnato ad un tale strumento sia – come pretenderebbe di suggerire il nome assegnatogli – quello di essere portatore della “buona novella”, che, nell’interpretazione di Israele, coincide evidentemente con un estremo disegno di pulizia etnica.