Uno studio realizzato dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e dell’Università di Milano apre una finestra su un paradosso tanto inquietante quanto tipicamente italiano. La metà meno abbiente degli abitanti del Bel Paese, quella che ha in mano il 17% del reddito nazionale, sopravvive tentando di farsi bastare 13mila euro all’anno, poco più di mille euro al mese. Mentre l’1% più ricco, con un reddito che raggiunge i 310mila euro annui e rappresenta il 12% del reddito nazionale, paga meno tasse dei primi. Anzi, per dirla tutta secondo lo studio – pubblicato sul “Journal of the European Association” – chi riesce a superare i 500mila euro annui, trova pronto un “premio” rappresentato da un’aliquota che scende al 36%. La fascia maggiormente colpita, neanche a dirlo, quella fra 18 e 35 anni, che ha perso per strada il 42% del proprio reddito.
Una stortura spiegata da tre diversi fattori: il principio della regressività dell’Iva, che scende all’aumentare della base imponibile, un peso minore di contributi sociali e una tassazione compresa fra il 10 ed il 26% di rendite finanziarie e locazioni immobiliari. “L’intero sistema fiscale italiano è solo blandamente progressivo per il 95% più basso della distribuzione del reddito, con un'imposizione fiscale che sale dal 40% al 50%. Il sistema diventa addirittura regressivo per il 5% dei contribuenti più ricchi come continua ad esserlo se si considera la distribuzione del patrimonio invece che quella del reddito”, ribadisce Andrea Roventini, uno degli autori dello studio, direttore dell'Istituto di Economia della Scuola Superiore Sant'Anna.
“Questo lavoro – aggiunge Demetrio Guzzardi, un altro autore dello studio e ricercatore in Economia della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa - combina diverse fonti di dati, quali dichiarazioni dei redditi, indagini campionarie di Istat e Banca d'Italia, stime sulla distribuzione del patrimonio netto, per distribuire a livello individuale l'intero ‘reddito nazionale netto’, corretto per l'evasione fiscale. Così è stato possibile identificare le fasce di reddito che hanno perso di più negli ultimi anni”.
Nell’ordine, sempre a quanto svela lo studio, a pagare di più sono i lavoratori dipendenti, seguiti da autonomi e pensionati, con una coda di fortunati che vivono di rendite finanziarie e locazioni immobiliari, a cui è riservato il carico fiscale minore. Per essere ancora più precisi, dal 2004 al 2015, mentre il reddito nazionale calava del 15%, il dato realmente avvertito dagli italiani più poveri raggiungeva il 30%.
La concentrazione del reddito nelle mani dello 0,1% degli italiani più ricchi è assai simile alla situazione francese, anche se Oltralpe le correzioni sui redditi hanno portato ad un aumento modesto, al contrario per nulla messo in pratica in Italia, dove il “loop” delle fasce più povere fa sì che lo svantaggio invece di diminuire aumenti sempre di più. Un dato che la Legge di Bilancio 2024 ha tentato di raddrizzare con la conferma del taglio del cuneo fiscale per i lavoratori con reddito fino a 35mila euro, ma con una penalità in più: non si tratta di una misura strutturale.
Lo studio si conclude sottolineando la necessità sociale di mettere mano alla disparità attraverso “una seria e profonda discussione” sullo stato attuale del sistema fiscale italiano. “L’evidenza di una regressività che favorisce solo le fasce di reddito più elevate sottolinea l'urgenza di riforme mirate che non penalizzino i redditi più bassi, ma mirino a correggere gli squilibri presenti riducendo le disuguaglianze e promuovendo una distribuzione del carico fiscale in modo proporzionato. L’avvio di questo dibattito rappresenta un passo cruciale verso un sistema fiscale più giusto e inclusivo, capace di sostenere una crescita economica sostenibile e di garantire benefici tangibili per l’intera società”.
Al momento, l’unica certezza è un sistema contorto che sembra la conferma di una celebre battuta di Ettore Petrolini: “Bisogna prendere il denaro dove si trova: dai poveri. Ne hanno poco ma sono in tanti”. Peccato che lui scherzasse, mentre qui si fa sul serio.
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