Daniele a 24 anni non aveva mai avuto una ragazza.
In verità non aveva mai avuto neanche un amico, come ha scritto lui stesso nell’ultima drammatica lettera lasciata a suo fratello minore poco prima di compiere un gesto estremo ed irreversibile, esortandolo a non commettere i suoi stessi errori.
“Ho sbagliato tutto”, ha scritto con un tratto ordinato e chiaro, di quelli che ricordano gli esercizi di calligrafia che si fanno nei primi anni di scuola elementare, con le “t” caudate e le “o” col ricciolo in alto, come nelle figure degli abbecedari.
Una scrittura elementare e pura, com’era la sua anima, niente affatto pronta a conoscere ed affrontare realtà che gli facevano paura, benchè le desiderasse.
“Sono stato solo tutta la vita. Tu devi avere tanti amici, tante ragazze, e trattarle sempre con rispetto… anche se non le ami”
L’amore Daniele lo aveva conosciuto. A modo suo.
Se lo era andato a cercare in un mondo parallelo, virtuale, che probabilmente considerava più sicuro e, paradossalmente, meno ingannevole di quello reale.
Lì si era innamorato di Irene, una ventenne bellissima di cui aveva soltanto delle foto e migliaia di messaggi scambiati via WathsApp.
Senza mai interrogarsi su tanta assurdità, per i lunghi mesi in cui si era portata avanti la loro “relazione”, Daniele non l’aveva mai incontrata Irene, mai baciata, mai stretta tra le braccia. Nemmeno la sua voce aveva mai conosciuto, perché quel fittissimo scambio tra loro era stato sempre e soltanto scritto: non una telefonata, non un messaggio vocale, mai alcunchè di vivo o sonoro.
Alla solitudine di Daniele Irene bastava.
Riempiva le sue giornate, i suoi vuoti, le sue notti, la sua mente, il suo cuore.
Che di concreto non ci fosse altro che un chattare infinito era l’auto-inganno della volontà e dei sensi che si era scelto e che lo appagava. Irene assecondava i suoi desideri, le sue fantasie di una vita insieme, di risvegli nello stesso letto, di viaggi, di bambini.
E tutto era stato perfetto finchè era rimasto sulla soglia dell’immaginazione, del possibile, del sogno.
Poi un giorno Daniele aveva scoperto l’inganno-altrui e messo a fuoco una consapevolezza che probabilmente c’era sempre stata ma che non aveva comportato danni finchè non si era imposta.
Irene non esisteva.
Anzi, non era mai esistita, se non nelle sue proiezioni fantastiche, rese credibili da una vigliacca complicità esterna.
Il sopraggiungere di una brusca e malvagia presa di coscienza aveva perciò d’un colpo solo svelato quel doppio inganno: il proprio e quello tessuto da un altro individuo, terzo, che di quello stesso doppio inganno si era a sua volta fatto imprigionare.
Roberto, il 64enne che aveva inventato Irene nutrendo per mesi le illusioni di Daniele, era senza ombra di dubbio un pervertito, un truffatore, uno squilibrato. Le sue azioni avevano innescato una finzione talmente grande e complessa che alla fine gli era sfuggita di mano, fino al tragico epilogo del suicidio dell’oggetto del suo desiderio e del suo inganno. Di certo non messo in conto.
Roberto era colpevole, oltre ogni ragionevole dubbio.
Ma pure vittima, e non meno di Daniele.
Era vittima di quella stessa solitudine, riempita solo dalla presenza d’una madre limitante, divenuta più un peso che una compagnia; ossessionato dunque dalla necessità di riempire i suoi vuoti – e probabilmente anche le sue irrisolutezze e le sue repressioni – anche in maniera assurda, ricorrendo ad una finzione destinata perciò ad ingannare non solo altri, ma a sviare prima di tutto se stesso, ospitandolo in un mondo parallelo popolato da individui altrettanto fragili e soli.
Non agiva per profitto Roberto; la sua non era una truffa finalizzata ad un guadagno economico: non chiedeva soldi, non ricattava, non minacciava. Truffava piuttosto i sentimenti altrui, allo scopo di appagare un proprio desiderio non altrimenti compensabile: perverso, sessuale, psicopatico che fosse.
Non era un gioco per lui, ma una necessità: non si potrebbe altrimenti spiegare la frequenza e la fissità degli scambi che, sotto le mentite spoglie di Irene, intratteneva con Daniele, né quell’estenuante andare e tornare che era diventata la nuova formula della loro relazione dopo che il dubbio aveva incrinato il precario equilibrio di Daniele.
Non è scusabile Roberto, soprattutto se si ragiona sulla circostanza che il suo gesto estremo, omologo di quello di Daniele, non è giunto all’indomani del disvelamento del suo inganno, quando è stato scoperto e processato per il reato (ridicolo!) di “sostituzione di persona”, ma molto più tardi, quando le sue azioni sono state rese pubbliche attraverso una trasmissione di dubbia correttezza e moralità che lo ha messo alla gogna, rendendolo riconoscibile all’interno della sua piccola comunità, nonostante gli accorgimenti impiegati per impedirlo, consegnandolo così allo sciacallaggio mediatico.
Roberto si è tolto la vita non per senso di colpa, ma per la vergogna d’esser stato messo a nudo, d’aver mostrato a tutti l’abisso della propria depravata condizione.
Daniele, all’inverso, si è tolto la vita non per vergogna ma perchè improvvisamente si è sentito gravare dal senso di colpa di aver sprecato la sua vita, lsciandosi abbagliare dal riflesso del niente.
Al netto del giudizio sociale e delle evidenze di colpevolezza, dov’è allora la differenza?
Con ‘cinismo matematico’ può dirsi che cambiando l’ordine dei fattori il risultato non cambia: l’istigato e l’istigatore, il truffato e il truffatore, sono molto più vicini di quanto non sembri, vittime entrambi di quella crescente e tormentata solitudine che avvelenza l’esistenza, inducendola ad aggrapparsi all’inganno, senza purtroppo fornire antidoti per le sue conseguenze.