Negli ambienti politici statunitensi, tutti i riflettori sono accesi su Kamala Harris, la vicepresidente, prima donna e prima asio-americana a della storia a salire così in alto nella catena del potere. Un’icona radical perfetta per le copertine glamour, considerata la predestinata a succedere a Biden (anche se lui non vuole saperne della pensione) e a guidare il nuovo corso del partito Democratico, spinta da un passato energico come procuratrice generale e poi senatrice della California: una donna dipinta come forte, volitiva, inarrestabile.
Ma Joe le ha assegnato un compito difficile assai, mettere ordine la quesitone migranti ai confini statunitensi, e a Kamala finora è riuscito ben poco, a parte rivolgersi direttamente ai popoli del Centro America con una retorica quasi trumpiana e distante assai dagli ideali “open borders” Democratici: “Voglio essere chiara: non venite, rimanete a casa vostra”.
Il secondo capitolo della “Kamala story” è il polverone di questi giorni, un velario di inefficienza diffusa che sta coprendo per intero lei stessa e il suo staff. Voci anonime e sempre più insistenti parlano di un ambiente velenoso, di disorganizzazione, lotte intestine, liti furiose e soprattutto disorganizzazione al massimo dell’espressione che ha come epicentro Tina Flournoy, chief of staff, il motore del muro impenetrabile che avrebbe abilmente creato intorno alla Harris, un’accentratrice che in caso di errore non esita a scaricare responsabilità urbi et orbi pur di uscirne fresca di bucato.
Si contano, al momento, 22 impiegati anonimi interpellati da “Politico”, che a voler essere raffinati descrivono l’ambiente della vicepresidenza così “malsano” da aver messo le ali ai piedi di diversi stretti collaboratori della Harris, come Karly Satkowiak e Gabrielle DeFranceschi, che a quelle stanze hanno preferito la disoccupazione.
Il fuoco di fila della contraerea difensiva si è mosso subito con Sabrina Singh, vice addetto stampa della vice presidente, che ha gettato secchiate d’acqua sul fuoco: “L’intero suo ufficio è concentrato sull’agenda dell’amministrazione per costruire un’economia che vada dal basso verso l’alto, e non il contrario, per assicurarsi che l’equità razziale sia al centro di tutto, per combattere la minaccia del cambiamento climatico e continuare a proteggere il popolo americano dalla pandemia”.
In soccorso si è aggiunto anche il capo dello staff di Biden, Ron Klain: “Il vicepresidente Harris e la sua squadra sono partiti nel modo più efficace di qualsiasi vicepresidente che abbia mai visto. Lei in prima persona sta risolvendo questioni che toccano da vicino il popolo americano come l’immigrazione, l’attenzione verso le piccole imprese, i diritti di voto e la crescita economica. La fiducia del presidente in lei è evidente quando li si vede insieme nello Studio Ovale. I risultati parlano da soli: un calo significativo degli arrivi alla frontiera, una migliore equità dei vaccini e maggiori opportunità economiche per le donne. Chiunque abbia l’onore di lavorare a stretto contatto con la vicepresidente sa come il suo talento e la sua determinazione abbiano già fatto un’enorme differenza in questa amministrazione”.
C’è chi ricorda che la campagna elettorale presidenziale della Harris aveva mostrato un deprimente spettacolo di improvvisazione molto simile: accuse, litigi ed errori così macroscopici da trascinare la stella in ascesa dei Dem verso sondaggi talmente disastrosi da convincerla ad abbandonare la corsa alla nomination, salvata in extremis da Biden, che le lancia un prestigioso salvagente inserendola nel suo ticket presidenziale.
Ma secondo voci ben informate, Joe in persona avrebbe deciso di mettere il naso dentro l’Ala Ovest per una prima stima dei danni e per riportare l’ordine.
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