Quando arrivò in Italia, Lahoucine El Aissaoui aveva sei anni, ed era il terzo di cinque fratelli.
Lasciava una terra, il Marocco, che ancora oggi è tra quelle con uno dei più alti tassi di analfabetismo, pari a circa la metà della popolazione. Le donne costituiscono la percentuale più alta, coerentemente alla loro condizione tra le meno valorizzate al mondo.
Suo padre in Italia c’era già arrivato diversi anni prima, da immigrato, una di quelle migliaia di persone in cerca di condizioni di vita migliore che allora verso l’Europa giungevano con flusso incessante. Faceva l’ambulante in Sicilia: era, insomma, un “vucumprà”, come si definivano allora - con neologismo coniato nella metà degli anni ’80 - i venditori di origine africana che popolavano spiagge e mercati. Poi, però, gli si era presentata l’occasione di un posto di lavoro stabile in Emilia e perciò si era trasferito lassù al Nord; si era sistemato e si era fatto raggiungere da sua moglie e dai suoi bambini. L’Italia sarebbe diventato il suo Paese adottivo.
Lahoucine era un bimbo curioso, ma soprattutto, a soli 6 anni, aveva già capito l’importanza degli apprendimenti e del sapere come strumento d’emancipazione: ne capiva la necessità per uscire dall’arretratezza e dal bisogno e poter puntare verso condizioni di vita migliore.
Perciò, già alla scuola primaria, non appena aveva iniziato a comprendere l’italiano, aveva iniziato a immaginare il suo futuro.
Si vedeva insegnante, come i suoi maestri prima e i suoi professori poi.
E tenacemente aveva perseguito quell’obiettivo.
Così, nella scuola dove aveva conseguito il suo diploma di tecnico della ceramica è infine tornato: dapprima come collaboratore scolastico (il bidello di un tempo); poi, dopo aver conseguito un secondo diploma per altro indirizzo, come insegnante tecnico pratico.
Oggi, a 37anni, quel bimbo marocchino arrivato in Italia quando ne aveva solo 6, è un insegnante di ruolo. I suoi professori di un tempo – quelli rimasti - sono diventati suoi colleghi e per tanti “altri” Lahoucine come lui, rappresenta un esempio di tenacia e determinazione.
È lui per primo ad essere orgoglioso del proprio risultato, quel traguardo che rappresenta per sé ed i suoi genitori un autentico riscatto: un familiare che siede al di là di una cattedra, in una scuola italiana, ma dall’altra parte rispetto agli studenti.
È vero, non è una storia sensazionale quella di Lahoucine e probabilmente nemmeno è dissimile da quella di molti altri come lui che ce l’hanno fatta a diventare qualcuno in maniera misurata e modesta, giacché la fortuna di trasformarsi in un asso del calcio o di altra disciplina sportiva resta invece un fatto eccezionale.
Ma perché non raccontarla? Perché non dare dimostrazioni concrete di volontà e impegno quando possono servire ad abbattere il pregiudizio di quanti identificano esuli e migranti con parassiti e opportunisti?
Soprattutto perché non aprire la mente alla possibilità di un cambiamento o di un parallelismo di ruoli dove chi un tempo è stato etichettato come “lo straniero”, che fa numero nella classe dei propri figli, può ritrovarsi col tempo ad essere insegnante dei propri nipoti?
Sappi però, Lahoucine, che tanti saranno ancora quelli che storceranno le labbra di fonte al colore della tua pelle o ai dati anagrafici di un tuo documento; che considereranno una deminutio che ad insegnare ai propri rampolli sia qualcuno proveniente da culture e tradizioni che col Dolce Stil Novo non hanno nulla a che vedere; che restano dell’idea che sarebbe più opportuno aiutarvi a casa vostra per impedire il rischio di contaminazioni e contraffazioni; che riterranno che le opportunità date ad uno straniero come te agiscono per sottrazione su quelle spettanti ai propri connazionali.
Ma tu resta a testa alta: è ciò che aiuta a non annegare quando i flutti del mare inghiottono le piccole imbarcazioni che trasportano scarti d’umanità verso lidi dove sperano di trovare qualcuno che invece li consideri persone umane; ma è anche “il pinnacolo” dov’è giusto issare la bandiera della vittoria, la colonna d’orgoglio su cui ostentare un traguardo raggiunto a costo di lacrime e fatica. A dispetto dei pregiudizi e della diffidenza di quanti misurano accoglienza e ospitalità col solo metro della convenienza.
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