Solo i versi dei gabbiani in cielo ed il “click” - emulo d’uno scatto fotografico - prodotto da qualche smartphone spezzano di tanto in tanto quel silenzio surreale, così pesante e marcato da sovrastare anche i suoni più lontani del traffico, dei clacson, delle sirene.
Un gruppo di donne – poche decine – è sparso sulla piazza, proprio sotto la statua equestre di Marco Aurelio.
Le figure sono ferme, distanziate tra loro d’un paio di metri e disposte su più file. Sono vestite di tutto punto; la postura eretta e fiera; lo sguardo fisso nel vuoto davanti a loro.
Posata ai piedi di ciascuna c’è solo una piccola borsa da viaggio.
I passanti sostano a loro volta silenziosi e incuriositi, aspettandosi che qualcosa accada da lì ad un momento.
E difatti è così: senza guardarsi l’una con l’altra, ad un segnale assolutamente impercettibile, le donne spezzano quell’immobilità, cominciando ad eseguire una sequenza di gesti lenti con un sincrono quasi perfetto per mimica e durata.
Quello che stanno compiendo è un “rito di svestizione” che poco alla volta rivela, in tutta la sua drammaticità, il potente simbolismo che vi è sotteso.
Si stanno spogliano degli indumenti che indossano, sfilandoli l’uno dopo l’altro con una grazia che sa di riverenza mista a malinconia; li ripiegano con cura, posandoli poi sulla piccola borsa da viaggio. Su alcuni indugiano, sottolineandoli con altri gesti ancor più simbolici: il foulard legato attorno al collo viene tirato da un lato e fermato per qualche secondo in alto, a mezz’aria, come fosse un cappio che stringe il collo d’un condannato.
Quando, infine, restano in sottoveste, passano a cancellare – con un gesto che pare proprio quello d’una spugna – ogni altro accorgimento esteriore connotativo della loro figura: lo chignon che suggerisce ordine ed eleganza; il rossetto che sottolinea il perenne, indispensabile, sorriso; il trucco che nasconde sotto un’apparente freschezza la stanchezza di lunghe giornate di lavoro e le tante ore di sonno perdute.
Poi, sempre lentamente, con un incedere mesto, si portano ai bordi della piazza, lasciando nel posto che prima occupavano soltanto le loro scarpe appaiate.
L’immagine delle scarpe rosse abbandonate ci è noto: sono il simbolo ormai riconosciuto della lotta ai femminicidi e rappresentano in vuoto lasciato dalle tante vittime la cui vite sono state precocemente spezzate.
Sono invece scarpe blu quelle lasciate sulla piazza del Campidoglio ed il loro significato non è tuttavia meno efficace: segna anch’esso una mancanza, meno cruenta, stavolta, ma altrettanto grave ed umiliante.
A mancare è il lavoro, è la dignità, sono i diritti.
E a rivendicarli sono le hostess di Alitalia: madri, mogli e compagne private del presente e di prospettive future; lavoratrici giovani e meno giovani che hanno voluto inscenare – avvalendosi di quello stesso silenzio con cui le loro sorti sono state vagliate – una protesta potente e dignitosa, brandendo come sola arma il niente che resta loro.
Lo hanno fatto per sé stesse ma anche per tutti i loro colleghi e colleghe rimasti letteralmente “a terra” con la fine di quella che ancora amavamo definire la nostra “compagnia di bandiera”, le cui alterne vicende, nell’arco dei suoi settantaquattro anni di attività, sono state quasi lo specchio della nostra economia. Di essa sembra infatti che abbia incredibilmente replicato la stessa parabola, con i suoi picchi e le sue discese, fino alla disfatta finale segnata da un’imprevedibile pandemia.
Stavolta l’ala tricolore non ce l’ha fatta a spiegarsi ancora, ed ha ceduto i suoi simboli e la sua livrea ad una nuova entità, contratta nelle dimensioni oltre che nel nome, sicché una buona parte dei suoi dipendenti ha dovuto subire un umiliante licenziamento o accettare contratti altrettanto mortificanti dalla nuova compagnia.
Se già ci addolorava l’idea di un addio alle ali che davvero ci hanno fatto volare in luoghi vicini o lontani, la pacata e nobile protesta delle hostess Alitalia ci ha toccato ancora di più, dando spazio a quella commozione cui sempre ci si lascia andare sui titoli di coda, quando il finale sgretola definitivamente l’ultimo barlume di speranza che lasciava confidare in un lieto epilogo.
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