Lo chiamano “Zhōngguó Mèng”, è il grande sogno cinese, primo esportatore e secondo importatore al mondo, quest’anno con una crescita stimata del PIL fra l’8,2 ed il 9,3%: un Paese che è riuscito a sradicare la povertà e diminuire la diseguaglianza sociale, ma giunto di fronte ad un momento di enormi cambiamenti e nel mezzo di una profonda crisi energetica dovuta al clima sempre più estremo, all’aumento della domanda di energia e ai severi limiti sull’uso del carbone.
Un problema che potrebbe durare mesi, mettendo a dura prova la ripresa economica del Paese e finendo anche per pesare sul commercio globale: sono numerose, le province cinesi che nelle ultime settimane stanno affrontando la crisi energetica, comprese zone considerate i “motori” della crescita economica. Fra questi la provincia di Guangdong, centro manifatturiero responsabile di 1,7 trilioni di dollari, o più del 10%, della produzione economica annuale del Paese, costretta a razionare l’energia per oltre un mese fino a costringere le aziende a chiudere ogni settimana per alcuni giorni. La “Chengde New Material”, con sede a Guangdong, uno dei maggiori produttori di acciaio cinesi, ha annunciato la chiusura degli impianti di produzione per due giorni a settimana “sine die”, fin quando l’energia non sarà più razionata, aspettandosi di conseguenza che i volumi di produzione calino fino a 10.000 tonnellate di acciaio al mese.
Ma sono almeno altre nove le province che denunciano problemi simili, tra cui Yunnan, Guangxi e il centro manifatturiero di Zhejiang, dove le autorità regionali hanno annunciato restrizioni sulla fornitura di energia in un’area delle dimensioni di Regno Unito, Germania, Francia e Giappone messi insieme.
L’Ufficio Nazionale di Statistica è stato costretto ad ammettere che la crisi energetica ha contribuito ad un calo della produttività, parole che mostrano i contorni della peggior crisi energetica dal 2011, quando la siccità e l’aumento dei prezzi del carbone hanno spinto 17 fra province e regioni a limitare fortemente l’uso dell’elettricità.
Questa volta, il boom delle materie prime post-pandemia e il clima stanno costringendo ancora una volta le centrali a carbone a ridurre la produzione, ostacolando anche l'energia idroelettrica. Ma c’è una differenza fondamentale: la Cina è intenzionata ad assecondare la spinta del presidente Xi Jinping verso un Paese a zero emissioni di carbonio entro il 2060. Un obiettivo ambizioso, ancora di più per il più grande consumatore di carbone al mondo, con le miniere di fatto costrette a produrne meno, seguito da un deciso aumento dei prezzi.
La crisi energetica potrebbe assestare un durissimo colpo alla fragile ripresa della Cina, ed esiste la concreta possibilità che il razionamento dell’energia elettrica possa inevitabilmente nuocere all’economia riducendo la produzione in quasi tutti i settori dell’economia, comprese le industrie chiave su cui nel corso del 2020 è convogliato quasi il 70% dell’elettricità prodotta dal Paese.
La carenza di energia può potenzialmente aggiungersi ai ritardi di spedizione che potrebbero essere avvertiti in tutto il mondo, e ad aumentare la pressione c’è il fatto che il Guangdong ha già gli immensi depositi portuali invasi di container, residua eredità della pandemia. A complicare le cose si mette anche il clima, con le fonti di energia rinnovabile come quella idroelettrica, frenate dalla siccità, e perfino l’importazione stessa di carbone dall’estero, guastato dalle tensioni con l’Australia: lo scorso anno Pechino ha imposto barriere commerciali contro il carbone australiano dopo che Canberra ha chiesto un’indagine indipendente sulle origini del Covid. Da allora, la Cina importato più carbone dall’Indonesia e dal Sudafrica per tentare di compensare il deficit, ma non pare sufficiente. Alla fine, secondo gli analisti internazionali, Pechino potrebbe cedere su alcuni obiettivi climatici, magari rimettendo in funzione le centrali elettriche chiuse all'inizio di quest’anno per abbassare i dati sull’inquinamento.