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La democrazia attentata

Autore: Ester Annetta
C’erano una zona rossa, una zona gialla e una zona verde anche vent’anni fa, a Genova, sebbene non fosse in atto alcuna pandemia. Si trattava invece di una divisione che era stata pensata per ragioni di sicurezza, al fine di contenere le annunciate manifestazioni che avrebbero accompagnato il vertice degli otto Grandi della Terra (il G8, che riuniva nella città ligure George W. Bush, Vladimir Putin, Tony Blair, Jacques Chirac, Gerhard Schröder, Junichiro Koizumi, Jean Chrétien e Silvio Berlusconi), in programma per il 20 luglio.

La zona rozza era quella interdetta, il cordone di protezione stretto attorno ai Grandi capi di Stato; nella gialla erano consentiti movimenti limitati; mentre la verde era quella dove le manifestazioni erano state consentite e autorizzate.

C’erano poi altri colori - quelli delle Tute Bianche e dei Blocchi Neri –, dominanti, a dispetto della ordinaria loro collocazione nella scala cromatica che li classifica come neutri. Lo si sarebbe compreso presto, una volta divenuto chiaro il loro abbinamento col rosso del sangue.

Le manifestazioni erano previste su tre giorni. Ad animarle erano intervenute le organizzazioni rappresentative di categorie e/o i movimenti che interpretavano il summit dei più potenti capi di Stato come l’occasione per far sentire la propria voce e il proprio dissenso.

La prima manifestazione, quella del 19 luglio dedicata ai migranti, si era svolta senza intoppi, pacifica e ordinata. Già la seconda, prevista per l’indomani e guidata dalla Tute Bianche (storicamente il simbolo di una forza-lavoro giovanile prevalentemente precaria, priva di diritti e di garanzie) destava più preoccupazioni.

Vent’anni fa, si disse che ci fosse un “accordo” tra le forze dell’ordine ed i manifestanti, per cui tutto si sarebbe svolto in maniera sicura e controllata. Nel corteo dei manifestanti avrebbero sfilato, insieme alle Tute Bianche (che di lì a poco avrebbero convertito il loro destino in quello dei Disobbedienti) una eterogenea e scollata massa di associazioni e movimenti – in tutto quarantacinquemila persone - che, per l’occasione, al grido de “un altro mondo è possibile” si erano trovati accomunati sotto la sigla GSF (Genoa Social Forum) assecondando prioritariamente la visione anticapitalista e antimonopolista del movimento più nutrito, i No-Global, e, dunque, la volontà di contrastare il potere delle multinazionali, lo sfruttamento della manodopera nel terzo mondo e i meccanismi incomprensibili della grande finanza mondiale.

In contemporanea si sarebbe mossa un'altra frangia di manifestanti, i Black Bloc (i Blocchi Neri, appunto), quella più “ardita”, che avrebbe dato un po’ di fastidio al corteo principale che sarebbe sceso nel centro della città partendo dallo stadio Carlini. Sarebbero stati guardati a vista dalle forze dell’ordine, che avrebbero tuttavia evitato di intervenire.

Tutto sarebbe stato comunque molto contenuto, una sorta di “recita”, insomma, in cui il pezzo forte sarebbe stato rappresentato dalla la violazione simbolica della zona rossa, con l’ingresso di quattro/cinque militanti del corteo principale oltre i cancelli di delimitazione e i carabinieri che avrebbero dovuto respingerli senza calcare troppo la mano.

E invece le cose non andarono così.

Mentre i Black Bloc, che - fedeli alla loro connotazione (che li vuole come movimento noto per esprimersi mediante tattiche di protesta violenta e che adotta come strategia per innescare lo scontro con le forze dell’ordine l’infiltrarsi nei cortei pacifici) già dalla mattina avevano cominciato a picconare strade e marciapiedi per procurarsi scorte di sampietrini e sassi da usare come “munizioni”– continuavano ad avanzare come barbari, devastando e saccheggiando la città, guardati a distanza dalle forze di polizia, il corteo principale fece la sua breve incursione nella zona rossa. I carabinieri reagirono, secondo copione; tuttavia non si fermarono e le cariche continuarono anche quando il corteo si era ormai allontanato dai cancelli, finché fu chiaro che la “recita” era stata interrotta, senza alcun preavviso, senza che mai si capisse per ordine di chi la carica “reale” contro il corteo sbagliato fosse stata decisa.

L’ondata di violenza che subitaneamente si innescò è nota: sassi, molotov, manganelli, lacrimogeni. I militari contrastavano i manifestanti colpendo scriteriatamente, infierendo su chiunque, anche anziani, passanti, ragazzi. Non si trattava affatto di un’azione di difesa e contenimento ma, come fu presto drammaticamente chiaro, d’una vera e propria repressione.

In piazza Alimonda i dimostranti contrattaccarono; le forze dell’ordine persero completamente il controllo. Un giovane poliziotto di 20 anni, assediato nella sua Jeep, sparò due colpi di pistola, uno dei quali – deviato da un sasso tirato da un manifestante, si disse – colpì un giovane di 23 anni che brandiva un estintore. La camionetta dei carabinieri passò sul suo corpo caduto in terra, che rimase lì, in una pozza di sangue: Carlo Giuliani, quella giovane vittima, divenne seduta stante il simbolo di quella follia, che tuttavia, non era ancora giunta al culmine.

Difatti fu la replica del giorno dopo la parte più oscena ed infangante di quelle tre giornate, passate nei libri di storia – al pari di tante altre fulminee e più note “giornate” di battaglie -, col contorno di tutte le critiche che da allora ed oggi ancora sono state mosse ad uno Stato, ad un ordine e ad una giustizia che sembravano essere spariti.

Il 21 luglio era il giorno della manifestazione di chiusura del GSF.

Le immagini della morte di Carlo erano ancora vivide, insieme a quelle della follia degli scontri. Eppure niente bastò ad impedire quel seguito. I Black Bloc, seguendo la loro prassi, si infiltrarono nel corteo dando via ai disordini. La polizia caricò, colpendo come e più di quanto non avessero fatto il giorno primai carabinieri. Sembravano anzi proprio loro, le forze che avrebbero dovuto riportarlo l’ordine, a sovvertirlo; i provocatori; i belligeranti che cercavano lo scontro ad ogni costo.

E non finì lì.

Quella stessa notte, circa cinquecento unità tra polizia e carabinieri, bardate con scudi e manganelli, fecero irruzione nella scuola Diaz, dove fino a poche ore prima avevano alloggiato alcuni Black Bloc e dov’erano rimasti un centinaio di No Global: fu un massacro, una vera e propria spedizione punitiva che castigò col sangue e la violenza pacifici esseri che giacevano inermi nel sonno. I militari avrebbero poi riferito, a giustificazione dell’azione, che i manifestanti avevano tirato sassi e bottiglie contro le volanti nel cuore della notte (falso!) e mostrarono delle molotov che loro stessi avevano invece nascosto nella scuola facendole passare come prova della pericolosità di quei ragazzi aggrediti nel sonno.
E, come se non bastasse, altro orrore si consumò nella caserma Nino Bixio di Bolzaneto dove i manifestanti arrestati vennero condotti e sottoposti a percosse, umiliazioni e abusi tra inni e slogan fascisti e razzisti, secondo il paradigma proprio della tortura, che però, nel 2001, la nostra legislazione ancora non aveva configurato come reato.

Vent’anni fa le istituzioni rimasero assenti, mentre i suoi delegati infierivano.
Vent’anni fa si compì un massacro per cui un colpevole non è mai stato individuato né è stata mai ricostruita la catena di comando che impartì gli ordini eseguiti dai militari.
Vent’anni fa la democrazia è stata attentata e sconfitta, i diritti umani sospesi e violati.
Vent’anni fa è stata scritta una pagina ignobile della nostra storia contemporanea che i nostri figli adolescenti è giusto che conoscano e che anche noi adulti è necessario che non dimentichiamo.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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