Nel 1967, un gruppo musicale italiano esponente del genere beat – I Giganti - si aggiudicò il terzo posto al Festival di Sanremo con una canzone destinata, col tempo, a diventare famosa non tanto per il suo titolo (si chiamava “Proposta”), quanto per il suo ritornello, che, ispirandosi ai testi pacifisti americani, diceva: “Mettete dei fiori nei vostri cannoni”.
Il testo del brano era strutturato come fosse un'inchiesta giornalistica sul disagio giovanile e, nelle sue tre strofe, dava voce a tre ragazzi molto diversi tra loro – un operaio, un pittore che per vivere vendeva giornali e il rampollo di una ricca famiglia con un futuro già deciso dal padre – ma accomunati da un identico sentimento di malessere (tradotto, appunto, in protesta) contro i difetti della società, le guerre e l’ordine costituito.
Sempre in quello stesso anno, un fotografo francese - Marc Riboud – riuscì a catturare la stessa idea espressa dal ritornello della canzone in uno scatto – intitolato “Jeune fille à la fleur” – che sarebbe diventato anch’esso iconico.
Era il 21 ottobre 1967; quel giorno, Jan Rose Kasmir, una studentessa di 17 anni del Maryland, anziché andare a scuola, era salita su un autobus diretto a Washington per raggiungere il Lincoln Memorial, davanti al quale si stavano radunando migliaia di persone decise a protestare contro il coinvolgimento degli Stati Uniti nella Guerra del Vietnam.
Molti di loro erano giovani - anche amici di Jan Rose - che avevano appena ricevuto la cartolina di chiamata alle armi: un appello che sapeva di dolore e morte.
I manifestanti avevano quindi iniziato a marciare verso il Pentagono, dove, ad attenderli, erano già schierati soldati armati pronti a far fuoco. Ad un preciso segnale, i ragazzi avevano appiccato fuoco alle cartoline, proprio davanti a loro.
La tensione era altissima, sarebbe bastata una scintilla ad innescare la reazione dei soldati.
D’un tratto Jan Rose si era staccata dalla folla, avanzando verso di loro con un fiore tra le mani. Aveva guardato negli occhi il soldato che le stava proprio di fronte, gli aveva sorriso, e gli aveva porto il fiore.
Era stato proprio quello il momento che Riboud era riuscito a cogliere con la sua macchina fotografica: da una parte la fragilità di un fiore, dall’altra la potenza delle armi.
Come lui stesso disse dopo, commentando l’immagine: “Ho avuto la sensazione che i soldati avessero più paura di lei rispetto a quanto lei ne avesse delle loro baionette.”
Si tratta di due storie di più di cinquant’anni fa, di modelli ed “influencer ante litteram” che hanno a lungo ispirato gli anni del “Flower Power”, quelli in cui i giovani, identificati da un nuovo distintivo appena coniato – un cerchio con una specie di Y a tre zampe rovesciata – avevano cominciato ad alzare la voce contro la follia della guerra.
Eppure, nella loro essenza, esse sono di un’attualità straordinaria, giacché rispecchiano temi ancora oggi al centro di lotte, proteste e manifestazioni: pacifismo e antimilitarismo, con uno sguardo anche all’ambiente.
“Mettete dei fiori nei vostri cannoni/perché non vogliamo mai nel cielo molecole malate/ma note musicali/che formino gli accordi per una ballata di pace”, dice ancora una strofa della canzone de I Giganti.
I fiori, oggi come ieri, con la loro delicatezza e fragilità, continuano ad essere un simbolo pacifico e potente di protesta, tanto che deporne uno per commemorare ed onorare un uomo libero – come voleva essere Navalny – può essere considerato un atto di ribellione, può fare paura, e, dunque, essere perseguito. È quanto accaduto nei giorni scorsi a Mosca, anche se, in fondo, poco sorprende la continuità di reazioni repressive –anche violente – in uno Stato dove, di fatto, vige un regime non molto lontano dal modello dittatoriale.
Così anche le manifestazioni pacifiche, oggi come ieri, sono uno strumento attraverso cui i giovani fanno sentire la loro voce quando “i grandi” non ascoltano “i Grandi”.
E se questo è il loro scopo, se vogliono essere unicamente il veicolo attraverso cui manifestare la propria opinione in un contesto dominato da altri interessi che si frappongono alla pace, non è allora ammissibile assistere a violente repressioni.
Soprattutto non è accettabile che ciò avvenga in una Nazione dove la libertà di pensiero e d’espressione trova preciso fondamento e garanzia nei principi costituzionali.
Ancor più è deplorevole una violenza ingiustificata contro giovani, perlopiù minorenni, che, al di là di ogni ideologia, manifestino fratellanza, solidarietà e sostegno ad un popolo afflitto e decimato da una guerra assurda.
I fatti di Pisa questo sono: un vergognoso decadimento dei valori e dei principi che uno Stato di Diritto dovrebbe tutelare.
Impedire di deporre un fiore o di manifestare solidarietà sfilando pacificamente – segni e testimonianza di contrasto al sopruso ed alla guerra – significa frustrare l’impegno ad aprire brecce attraverso cui sconfinare in un altro mondo. Migliore.